L’eterna battaglia su Piero Manzoni
Dissequestrate opere che per loro erano «falsi» Il giudice: dalla Fondazione solo pareri tecnici
Continua la battaglia sulle opere di Piero Manzoni. L’ultimo atto si è concluso settimana scorsa. Il giudice ha riconsegnato, dopo 5 anni, alcuni pezzi sequestrati come falsi a un collezionista milanese.
Carte bollate La contesa durava da 5 anni. La famiglia aveva provato anche a bloccare la biografia
Quando era in vita, l’artista Piero Manzoni — 29 anni bruciati in un lampo fra la creazione di lavori passati alla storia dell’arte e bevute che iniziavano dal latte corretto al Pernod per colazione — faceva una gran fatica a vendere le sue opere. Quelle stesse che oggi, sempre più spesso, vengono invece contese in Tribunale.
Le ultime, sequestrate come false a un collezionista milanese, la scorsa settimana sono tornate a casa attribuibili a Piero Manzoni dopo un processo penale durato cinque anni. La «metamorfosi» è avvenuta per effetto di una sentenza «in nome del popolo italiano» emessa dal Tribunale di Milano il 25 maggio scorso e nel frattempo, non essendo stata appellata, divenuta irrevocabile. Il giudice Maria Paola Canepari ha chiesto l’assoluzione per il collezionista milanese accusato dalla signora Rosalia Pasqualino di Marineo, in qualità di direttrice della Fondazione Piero Manzoni, di ricettazione e detenzione di opere false. La sesta sezione penale del Tribunale ha stabilito che il fatto non sussiste perché «la circostanza che le opere in sequestro non risultino incluse nei cataloghi ufficiali della Fondazione non prova tout court la loro falsità e non ne preclude la loro commerciabilità». Ma il collezionista non è l’unico ad esultare per la sentenza. Questa, infatti, ha contestualmente ribadito i limiti del ruolo degli eredi nella certificazione di autenticità delle opere. Fatto non di poco conto perché fin dall’Ottocento le ingerenze delle famiglie degli artisti sono state un flagello tanto che anche Claude Monet dichiarò l’intenzione di distruggere tutti i suoi quadri prima della morte perché, spiegò, «non voglio che mia moglie faccia come madame Manet».
Nel dispositivo della sentenza, dunque, il giudice Maria Paola Canepari ricorda la precedente ordinanza del Tribunale di Milano del 14 luglio 2012 dove si stabilisce che «le autenticazioni effettuate dopo la morte dell’artista dalle Fondazioni che si propongono di conservare e di promuovere il patrimonio dell’artista archiviando le opere su richiesta dei proprietari, sono semplici pareri tecnici, pur se spesso assai autorevoli, in considerazione della composizione del Comitato scientifico e della fiducia loro accreditata sul mercato». Non hanno quindi un valore inoppugnabile di autenticazione come già stabilito, sottolinea sempre la giudice, dal Tribunale di Roma nel 2010: «In quanto tale, l’autenticazione non può che provenire dall’artista stesso, perché solamente l’artista è in grado di riconoscere la propria opera con assoluta certezza».
Pertanto il dispositivo della sentenza passata in giudicato ha consentito anche di mettere in chiaro l’ambito di intervento della Fondazione Manzoni, costituita dagli eredi, che quattro anni fa aveva chiesto un altro sequestro. Rimanendo anche allora sconfitta, aveva preteso di impedire la pubblicazione del libro «Il ribelle gentile», una biografia non autorizzata dell’artista scritta da Dario Biagi con le testimonianze di coloro che avevano conosciuto Manzoni, a cominciare dalla fidanzata Nanda Vigo. A sua volta querelata (il processo è ancora in corso) dalla Fondazione per il contenuto di un’intervista rilasciata al Corriere. Già quando Piero era in vita la famiglia si vergognava di quel ragazzo sbeffeggiato sui giornali per la «Merda d’artista» (diventata una delle sue più celebri opere), e tuttavia oggi la tutela del suo buon nome non è più solo una questione di prestigio sociale, ma soprattutto di soldi. Tanti, tantissimi, perché dalla Fondazione Manzoni, che ha fatto un accordo con la galleria Hauser and Wirth, passano tutte le archiviazioni delle opere. Senza quel passaggio, non c’è casa d’aste o mercante internazionale che si prenda la briga di vendere un’opera che rischierebbe di venire sequestrata. Proprio ciò che è successo anche all’avvocato bresciano Carlo Pelizzari, ancora sotto processo a Milano per ricettazione, messa in commercio di opere contraffatte e truffa. Un altro bel garbuglio per i giudici dove il protagonista è sempre quel Piero Manzoni che si beffava del sistema dell’arte vendendo scatolette da 30 grammi di «merda d’artista» al prezzo corrispondente di 30 grammi d’oro.