Saint Laurent Il bodyguard fugge con le borse
Via Sant’Andrea, lo steward è scappato in Francia
Arrivava in anticipo al lavoro, scendeva in magazzino, nascondeva un paio di borse. Da dicembre 2015 a maggio 2016 Mamadou Lamine Diongue, 32 anni, senegalese addetto alla sicurezza della boutique di Yves Saint Laurent in via Sant’Andrea, ha rubato almeno 90 borse (valore complessivo 200 mila euro). Ora è latitante.
Il doorman era un ragazzo mattiniero. Arrivava in anticipo al lavoro, passando ogni volta davanti alla sequenza di vetrine tra le più lussuose al mondo, e scendeva tranquillo in magazzino. Là dentro, nel luogo più riservato e inaccessibile della boutique «Yves Saint Laurent» di via Sant’Andrea, cuore del Quadrilatero della moda, si guardava intorno. Si assicurava d’esser solo. E «imboscava»: un paio di borse per volta, infilate in uno zaino, trafugate alla svelta. Poi si stringeva il nodo alla cravatta, impostava la sua espressione seria e cordiale, e prendeva servizio all’ingresso del negozio. Accoglienza dei clienti e controllo di sicurezza.
Costante, equilibrato, senza esagerare, in un periodo che va da dicembre 2015 a maggio 2016, Mamadou Lamine Diongue, 32 anni, senegalese, ha rubato almeno 90 borse, per un valore complessivo che si avvicina ai 200 mila euro. Il processo contro il doorman (nel quale «Yves Saint Laurent» è parte civile) si sta svolgendo in questi giorni a Palazzo di giustizia; la prima udienza risale a un paio di settimane fa. Ma Diongue non siede tra gli imputati: l’ultima traccia del suo cellulare, mesi fa, lo localizzava in Francia; poi si è volatilizzato. Qualcuno lo ha avvertito che era sotto inchiesta: e infatti non è il solo imputato.
L’indagine è iniziata quando i responsabili del negozio si sono accorti di qualche «buco». Diongue scendeva in magazzino quando in boutique non c’era ancora quasi nessuno
Il processo Diongue, 32 anni, senegalese, scendeva nel magazzino quando il salone era deserto
e poi risistemava le borse in modo che non fosse evidente agli altri impiegati che mancava qualcosa. Aveva messo a punto una tecnica di furti piccoli e costanti: sperando che passassero inosservati, o che comunque non gli potessero essere attribuiti. Ma i poliziotti dell’Ufficio prevenzione generale della questura, diretti da Maria Josè Falcicchia, appena esaminata la segnalazione si sono resi conto che poteva trattarsi di un inside job. E così, coordinati dal pm David Monti, hanno iniziato a setacciare decine di ore di filmati delle telecamere interne. Agli atti dell’inchiesta sono allegate le immagini che riprendono cinque furti, per una decina di borse trafugate. Ogni volta che i poliziotti dovevano controllare le telecamere, però, si dovevano attenere alle regole interne dell’azienda: il sistema è protetto da una password, che va digitata ad ogni accesso. Metà della parola chiave era conosciuta da un’altra dipendente, rappresentante sindacale (ora indagata), che così è venuta a conoscenza degli accertamenti. L’ipotesi degli investigatori è che sia stata proprio lei ad avvertire il doorman: così l’uomo una mattina è arrivato al lavoro, ha finto di sentirsi male, ha detto che sarebbe tornato a casa per curarsi e da quel momento non s’è più visto.
L’ultimo pezzo dell’inchiesta riguarda il filone «esterno»: i poliziotti hanno accertato che, almeno in un caso, il dipendente passava le borse rubate a un suo connazionale (ora indagato) e che una di queste borse è finita nelle mani di un commerciante cinese (indagato anche lui) che provava a rivenderla. Costo al mercato nero: 300 euro, un quarto del prezzo.