Alle Gallerie d’Italia sessanta quadri ricostruiscono il gusto del Seicento Dopo la morte del pittore lombardo i collezionisti preferiscono il Barocco
Alle Gallerie d’Italia non ne sbagliano una: ogni mostra fa centro, in equilibrio tra bellezza, emozione, costruzione logica, ricerca, ipotesi innovative. Non fa eccezione «L’ultimo Caravaggio. Eredi e nuovi maestri», inaugurata ieri nella sede di piazza Scala. A cura di Alessandro Morandotti, il percorso si propone di dimostrare che la pittura del primo Seicento in Italia non è patrimonio esclusivo di Caravaggio e del Caravaggismo: mancato il Merisi nel 1610, il suo naturalismo lascia tracce dove ha lavorato a lungo, come a Napoli, mentre il Nord segue strade proprie verso il nuovo linguaggio barocco. La teoria trova concretezza in una storia, raccontata attraverso le opere esposte: la storia dei due fratelli Marcantonio e Giovan Carlo Doria, banchieri e mecenati genovesi. Collezionisti aperti all’arte contemporanea, guidati però nelle loro scelte da piazze finanziarie e gusti diversi: il primo legato alla scena napoletana e alla scuola caravaggesca, il secondo attivo a Genova e Milano e incline all’alternativa barocca. Il contrasto si esprime già nei due dipinti che introducono l’itinerario. Stesso soggetto, il «Martirio di Sant’Orsola»: quello realizzato per Marcantonio da Caravaggio nel 1610 a Napoli — che appartiene a Intesa Sanpaolo — e subito inviato a Genova, messo a confronto con quello del genovese Bernardo Strozzi, 1615-16. «Il Merisi usa toni cromatici lividi, quasi lunari, come sempre essenziale. La santa, incredula, cerca quasi di strapparsi la freccia dalla carne», spiega Morandotti. «Lo Strozzi invece indugia su toni di colore cangianti, su dettagli preziosi, sull’atteggiamento languido ed estatico della martire, sui sentimenti». Siamo agli antipodi. «Strozzi conosce il capolavoro di Caravaggio. Ma lo stile di Merisi in Liguria non sfonda, non crea reazioni».
La mostra prosegue poi in sei sezioni sviluppate sui tre assi napoletano, genovese e milanese: le due collezioni Doria vengono riproposte attraverso dipinti che vi appartenevano realmente o che, per analogia di gusti e di autori, avrebbero potuto appartenervi. In tutto quasi sessanta opere: i caravaggeschi De Ribera e Caracciolo di Marcantonio, i barocchi Van Dyck, Vouet, Strozzi, Procaccini di Giovan Carlo. A proposito di Giulio Cesare Procaccini, maestro del Seicento lombardo di origini bolognesi, la rassegna riserva un coup de théatre: l’eccezionale presenza dell’enorme «Ultima Cena» della Santissima Annunziata di Genova, quasi 40 metri quadri, esuberante e scenografica. «Per una fortunata coincidenza l’inizio della mostra ha coinciso con la fine del restauro dell’opera, alla Venaria Reale di Torino, e abbiamo potuto averla qui». Nella sala conclusiva infine un’altra sorpresa: verso il 1640, a Genova, la fiammata caravaggesca che «Il martirio di Sant’Orsola» non aveva innescato si accende grazie all’arrivo delle opere di Matthias Stom, capolavori sconosciuti e notturni di lumi e controlumi.