«Ho vinto un premio al liceo per le mie notti con la coca»
Cremona, il racconto di Anna sui suoi anni da tossicodipendente
Lo zainetto con le opere di Pirandello, una cascata di capelli biondi e due occhi verdi che hanno visto il buio. Anna Coppi, 19 anni, studentessa della V B del liceo classico «Daniele Manin» di Cremona, è una ragazza coraggiosa. Lo è stata due volte: prima ha chiuso con la droga, poi ha reso pubblica la sua esperienza perché serva da esempio agli altri giovani. Anna aveva 15 anni quando è cominciato tutto. «Sono sempre stata quella con la faccia pulita e che prende bei voti, ma dentro avevo un caos. A un certo punto c’è stato il tracollo e ho smesso di andare a scuola». Nel suo quartiere, prima periferia, c’era un gruppo di tossici. «Mi sono avvicinata a loro. Erba, pasticche, cocaina. A Cremona, anche se è una piccola città, è facile procurarsi la roba. Era un momento di oblio, come se il tempo non esistesse, riuscivo a dimenticare tutto. Non è vero che ci si droga perché si sta male, lo si fa perché dà piacere. Una sensazione estrema. Ma quando passano quegli istanti, si ripiomba nella stessa disperazione di prima». Lei era la l’ultima arrivata nel gruppo. «Il mio problema è sempre stato la dipendenza dalle persone, frequentavo quella gente perché mi facevano sentire importante. Le giornate erano tutte uguali, le trascorrevamo al parco, in piazza o in vicoli che puzzavano di urina. Qualcuno si addormentava su una panchina, i più fortunati, come me, avevano un letto, un posto dove tornare». Alcuni di quelli sono ancora in giro, altri entrano ed escono dal carcere. Quel periodo è durato quasi un anno, sino a quando la madre si è accorta che qualcosa non andava. «Il faccia a faccia con lei è stato forse il momento più difficile. Si è messa le mani nei capelli, ma mi ha rimesso in piedi. E ora, guardando indietro, devo ringraziarla per la sua pazienza e il suo amore». Poi l’intervento del Sert e le assistenti sociali. «Mi ripetevano: Anna, devi lasciare Cremona e andare in comunità. Ci sono rimasta per un anno e mezzo. All’inizio è stata dura perché la vivevo come una prigione, mi mancava il mio fratellino. Invece ho trovato la mia seconda famiglia. Con quelle persone ho imparato a dosare le parole, la rabbia, il malessere».
Dopo un anno e mezzo, il ritorno a casa. E a scuola. «È stato il mio riscatto, la rivincita, anche se l’idea di rientrare in quell’ambiente mi spaventava. Ho trovato molto cuore nella mia classe, nel mio liceo». Il Manin organizza per i suoi studenti un premio, giunto alla nona edizione, intitolato a Floriano Soldi, giornalista della Provincia di Cremona scomparso nel 2009. «Ho deciso di partecipare al concorso. Mezz’ora e il testo era già pronto. Mi è sempre piaciuto scrivere, buttavo tutto sul primo foglio che mi capitava tra le mani, ma avevo il brutto vizio di bruciarlo ogni volta». Il racconto è al maschile, ma l’autrice è riconoscibile.Un crudo resoconto in cui descrive uno di quei sabati sera da sballo: «Emozione unica il primo tiro di canna; e la prima pastiglia di ecstasy, vogliamo parlarne? Ancora oggi devo comprendere se ciò che ho visto quelle notti era reale. Qualcuno di noi, ogni tanto, scompariva, ma che importava? Eravamo troppo fatti per accorgercene. Non capivamo nulla di ciò che accadeva al di fuori della nostra cerchia, ma eravamo felici così, ci bastava uno spacciatore all’angolo della strada e del piacere fittizio. I mal di testa per la musica troppo alta, il sudore freddo, le pupille dilatate erano il segno che eravamo vivi; al diavolo il dolore del mattino dopo, in quei momenti sentivamo il sangue pulsare».
Pochi giorni fa la preside, Mirelva Mondini, è entrata in V B. «Credevo ci fosse qualche problema, invece era venuta per annunciare che avevo vinto il premio. Mi sono commossa. Non me l’aspettavo, anche perché credevo di essere andata fuori tema». Anna ci ha messo la faccia. «Non mi considero una maestra di vita, ci mancherebbe, vorrei solo essere d’aiuto, dire a tutti che un modo per salvarsi c’è sempre. All’epoca non me ne accorgevo, ma avevo cinquecento mani tese che non volevo afferrare».