Un giovane combattente nel Cile di Pinochet All’Elfo debutta «L’acrobata»
All’Elfo «L’acrobata», storia vera di un combattente nel Cile di Pinochet Il regista De Capitani: «Ogni riferimento a fatti e persone è autentico»
Questa è una storia cominciata oltre un secolo fa. E non ancora finita. Storia vera, avventurosa, drammatica, eroica, che vede quattro generazioni diversissime tra loro passarsi uno scomodo testimone di ideali e passioni. Perché «L’acrobata», in scena da stasera in prima nazionale al Teatro Elfo Puccini, testo di Laura Forti, regia di Elio De Capitani, è un racconto di formazione di un giovane guerrigliero ma anche un ritratto di famiglia perennemente in fuga.
«A cominciare dal nonno, Juliusz Levi — spiega De Capitani —. Un ebreo cinico e vitale, che nel 1905 scappa dai pogrom sanguinosi della Russia, peregrina per l’Europa, tenta di metter radici in Italia, dove però le leggi razziali del ‘38 lo costringono a nuove erranze. Stavolta al di là dell’oceano, in Cile, dove sua figlia diventerà la prima donna geologa del Paese, coniugando l’amore per la terra con la militanza comunista. E dove nascerà Josè. Josè Valenzuela Levi detto Pepo, nome di battaglia Ernesto, visto che come il «Che» anche lui combatterà e morirà per la libertà di un popolo oppresso dalla dittatura. Lasciando un’eredità di lacrime e un bambino, che oggi, alla stessa età in cui suo padre fu ucciso dagli sgherri di Pinochet, si esibisce per mestiere in un piccolo circo».
«L’acrobata» appunto. Titolo emblematico di una condizione comune a tutti quei nomadi dal bagaglio leggero e il cuore pesante, sempre in fragile equilibrio tra coraggio e paura, uniti e divisi da una dolorosa catena di esili, speranze e disperazioni. A dare corpo e voce ai protagonisti di questo lungo viaggio dentro la notte del tempo e della storia, saranno Cristina Crippa e Alessandro Bruni Ocaña.
«Un giovane eroe e sua madre. Che quel figlio ha cresciuto nella fede di una rivolta capace di cambiare il mondo e quel figlio ha perso per colpa di quegli stessi ideali. Funambolo della lotta armata, Pepo si gioca la vita, tenta il suo salto mortale. Ma l’attentato a Pinochet fallisce e lui viene catturato, torturato, fucilato con altri dodici compagni nella Matanza del Corpus Christi», prosegue De Capitani, che nello spettacolo comparirà nei panni del nonno capostipite in uno dei video realizzati da Paolo Turro, proiettati sulle tre pareti bianche che delimitano la scena.
Non ha ancora 30 anni Pepo quando muore per la libertà. Sua madre, nel frattempo riparata in Svezia, non si darà mai pace. Vive ancora, rinchiusa in un muro di silenzio invalicabile. Dialoghi spezzati, frammenti di memoria e verità che il figlio di Pepo, con la perizia del vero equilibrista, tenta di riannodare sul filo teso sopra il baratro del Novecento. «Ogni riferimento a fatti e persone è assolutamente autentico — assicura De Capitani —. Ogni parola, ogni pensiero di quelle persone è un’immaginazione, una speranza. Noi dell’Elfo, ormai della generazione dei padri, ci siamo dati una missione: non dare mai nulla per scontato. Il teatro, luogo dell’autenticità e dell’incontro, deve raccontare il passato, far scoprire idee e ideali. Perché c’è sempre qualcuno che compie 16 anni. E poi, che siano 16 o 60, il bisogno di ritrovare delle passioni vale per tutti».