UN CORTEO TROPPO ISOLATO
Venerdì pomeriggio un (piccolo) corteo ha sfilato tra piazza San Babila e corso Monforte. La manifestazione era stata organizzata, nel giro di un paio di giorni, dai sindacati per portare simbolicamente (ma non solo) al prefetto le istanze che il mondo del lavoro pone alle istituzioni di fronte alla strage silenziosa delle cosiddette «morti bianche». Un atto doveroso, istintivo, inderogabile, come il lutto cittadino dichiarato immediatamente dal sindaco: perché non si può tacere, non si può non reagire di fronte alla perdita di quattro vite. E infatti all’indomani della tragedia di via Rho il dolore e lo sgomento erano percepibili in tutta la città, senza distinzioni di alcun tipo. Anche perché, al di là del cordoglio, una metropoli europea ha il dovere di interrogarsi di fronte a quattro persone che muoiono sul posto di lavoro. E bisogna tornare molto indietro nel tempo per trovare, a Milano, un evento paragonabile per drammaticità.
Eppure venerdì pomeriggio, al primo appuntamento pubblico dedicato alla strage di Greco, la città non c’era. C’erano — compatti e unitari — gli apparati sindacali, che hanno convocato e organizzato a tempo di record la manifestazione; c’erano, dispersi nel corteo, alcuni rappresentanti delle istituzioni cittadine e alcuni volti della politica, questi ultimi non del tutto immuni dall’alone di sospetto che accompagna ogni gesto in una campagna elettorale.
Ma la città attorno è apparsa indifferente. Non una saracinesca abbassata, non un passante che prestasse attenzione al passaggio del corteo. Insomma, niente a che vedere con lo scenario offerto, dieci anni fa, da Torino dopo la strage della Thyssen Krupp. Anche in quell’occasione Cgil, Cisl e Uil organizzarono due giorni dopo una marcia silenziosa verso la prefettura, dietro lo striscione «Basta morti sul lavoro». Il percorso era più lungo e attraversava una buona fetta del centro di una città visibilmente in lutto: ovunque serrande abbassate, luci di Natale spente, bandiere a mezz’asta, passanti immobili sui marciapiedi, gente che si affacciava alle finestre o usciva sui balconi di case e uffici. Certo, l’intero Paese era rimasto colpito al cuore dalla morte atroce che aveva cancellato sette vite in un colpo solo e da subito erano emerse pesanti responsabilità aziendali. Certo, proprio in quel periodo il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, stava conducendo in prima persona una campagna di sensibilizzazione sulla sicurezza nel lavoro. Certo, in dieci anni è aumentata ulteriormente la velocità con cui le notizie si cannibalizzano una dopo l’altra. Ma la domanda resta: perché Milano non si è sentita coinvolta da un evento così tragico? È un interrogativo che devono porsi, innanzitutto, i vertici sindacali, chiamati a ricucire i legami tra società civile e mondo del lavoro che da anni sono allentati se non del tutto sciolti. Ma sebbene il lavoro sia una questione controversa anche in questa città, perché rappresenta il confine tra inclusione ed esclusione, quando si parla di sicurezza (cioè di vita o di morte) non dovrebbe mai essere un tema divisivo. Milano non deve, non può assuefarsi all’idea che di lavoro si possa morire. E deve anche prendere atto che gli operai esistono ancora. Come ci ha sbattuto in faccia la tragedia della Lamina, lavorano e muoiono sotto le nostre finestre.