L’INGLESE E LA CITTÀ «SMART»
Do you speak english or not? This is the question,a
Milano: la settimana era iniziata con il caso del Politecnico che si era visto bocciare dai giudici i corsi nella lingua di Shakespeare e si è conclusa con la strigliata di Beppe Sala ai suoi assessori rei, per il sindaco, di essere troppo attaccati a Dante (o, forse, al Machiavelli). Il ritardo della popolazione italiana sul tema è ormai archeologia industriale: anche Paolo Villaggio con Carlo Vanzina ne fecero uno scontato film: «Io no speak Inglish». Se ne parla da decenni e per inciso non serve capire Shakespeare e il suo to be or
not to be: basterebbe riuscire a parlare la lingua dei Monty Python e comprendere The
meaning of life (film in lingua originale, è così che fanno gli altri Paesi). Ma in effetti a Milano il dibattito sembra essere stato superato dai fatti, perlomeno lontano dai contesti istituzionali. Prendiamo molti startupper: leggono giocoforza in inglese su Internet. Si confrontano oltre confine. Preparano elevator pitch.È tutto un chattare di venture capital, round, blockchain,
coins e smart city. Non si parla certo di fabbrichette e capannoni in Brianza come si faceva fino a poco tempo fa. In diverse aziende accade la stessa cosa: lingua ufficiale è l’inglese, quasi si trattasse di consolati americani in territorio meneghino. E immaginiamo — speriamo ancora? — l’arrivo dell’Ema al Pirellone. Altro che difesa dei dialetti: la sede della Regione sarebbe diventata la torre di Babele. L’inglese alla fine è così: quelli che ne parlano e quelli che lo parlano. Best regards.