Così il sogno mostra l’assurdità della vita
Balasso show in un «Macbeth» del Nord Est
«Toni Sartana e le streghe di Bagdad»: Natalino Balasso torna a Milano con il secondo capitolo della sua «cativissima» trilogia dedicata al decadimento di una società tragicamente comica. Una commedia cinica e grottesca dove l’economia e la competizione sono protagoniste, un’altra folle avventura per riflettere sui demoni che abitano dentro e fuori di noi. Tutto accade in Iraq, è qui dove il nostro vile Toni Sartana (Balasso) è impegnato nella liberazione, del tutto casuale, del maggior importatore di jeans strappati, Munerol (Andrea Collavino). Per ricompensarlo dell’azione l’imprenditore nomina Sartana amministratore delegato dell’azienda. Inizia così la sua scalata economica, o meglio la sua discesa verso gli inferi, un cammino fatto di sangue e omicidi, degno di una tragedia shakespeariana.
«Mi sono ispirato al Macbeth», afferma l’autore: «qui sono le streghe ad apparire a Bagdad per predire le imminenti sciagure, mentre è Lea, la moglie di Sartana (Francesca Botti) a organizzare i più feroci delitti per farsi strada nel mondo del potere, proprio come la Lady di Shakespeare». Con un linguaggio estremo che sottolinea il carattere dei personaggi, sul palco una guerra fatta di colpi bassi e iperrealistiche strategie, tutti sono contro tutti. Oltre alla sanguinaria Lea, c’è Sharon (Marta Dalla Via), la segretaria iper efficiente, dalla parlata superveloce, una mafiosa comicamente dominante, e Bordin (Denis Fasolo), invidiosissimo del potere di Sartana, sempre attento a non perdere il suo machismo, e infine c’è Salma (Beatrice Niero), la prostituta dal cuore d’oro. Un testo dove le donne sono le più perfide: «qui i maschi sono un po’ spaesati, sono troppo occupati a bearsi della loro presunta virilità, le donne invece sono le più cattive perché usano la loro intel- ligenza per far fuori gli avversari».
Sul palco, abitato da una scenografia astratta con un banner di banconote e un tappeto sonoro che evoca i luoghi dove si svolge la vicenda, la competizione è dunque al centro della questione, a cominciare dai suoi paradossi: «a cantare la bellezza della gara è sempre stato chi la vince, tutti gli altri stanno a guardare e girano a vuoto come dei criceti sulla ruota. In scena non racconto la realtà, non è il mio mestiere, preferisco narrare una fiaba che tra fantasia e verità svegli i mostri che abbiamo dentro di noi, un sogno che mostra l’assurdità della vita».