Corriere della Sera (Milano)

Solo per i suoi occhi

Il Museo del cinema celebra Paul Newman a dieci anni dalla morte Temerario sul set, tranquillo nel privato, esordì con un peplum nel 1954

- Maurizio Porro © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

Sono del daltonico Paul Leonard Newman gli occhi azzurri più rinomati del cinema. All’attore, nato a Cleveland nel ’25 ma non baciato dal fuoco sacro dell’arte, la Cineteca dedica a 10 anni dalla morte una rassegna di 15 titoli tutti mediamente lunghi, il primo del ’56 l’ultimo del 2002, in una carriera che dagli anni 50 l’ha visto in una sessantina di ruoli, star a Broadway e regista di cinque pregevoli film. Diretto dai registi action (da Huston a Hitchcock) ma anche da quelli più sofisticat­i (da Ivory a Altman, da Scorsese ai Coen a Sam Mendes, da Lumet a Pollack), Newman è stato allevato a studiarsi dentro con l’introspezi­one freudiana da Actor’s Studio, formando con Brando e Dean (ma il partner storico sarà Robert Redford, basti pensare a «Butch Cassidy» e la «Stangata») un terzetto di giovani poco hollywoodi­ani e non vincenti nella vita.

Newman fu dedito a esercitars­i nelle nevrosi del nuovo teatro di Tennessee Williams e nella proclamazi­one di ideali al passo coi tempi democratic­i dell’America, dando contributi con film impegnati («Un uomo oggi»). Anche se debutta col cinemascop­ico peplum «Il calice d’argento» (‘54), suo primo successo è il pugile italo americano Rocky Graziano in «Lassù qualcuno mi ama» in cui abbraccia la nostra Annamaria Pierangeli come poi farà con la Loren, la Koscina, Liz, Julie Andrews, la Bacall e tante altre, seguito da «Billy the Kid» di Penn, uno dei suoi cult. Non aveva paura di affrontare sul set rischi fisici (si butta dalla finestra, viene impiccato, è torturato in «Nick mano fredda», si spacca la caviglia nella «Gatta sul tetto che scotta», in «La dolce ala della giovinezza» viene evirato anche se da noi ci fu lo sconto censorio: sfregiato. Poco mondano, fu fedele dopo veloci prime nozze, al matrimonio con Joanne Wooward, spesso partner di commedie e drammi. Ebbe una tragedia quando l’unico figlio maschio morì per overdose e fu anche per questo che si dedicò alla beneficien­za creando un «dressing», un condimento per condire insalate, il Newman’s Own che verrà dato come premio alla serata di quiz del 9 febbraio.

Simpatico a uomini e donne, passato dai 17.500 dollari degli anni 50 ai 3 milioni di dollari (ma seppe rifiutare una fortuna per «Superman»), Newman è stato un inno alla costanza della ragione di uomo e attore, immune dai gossip in parte scatenati postumi, dedito alle passioni del bravo ragazzo yankee come le macchine da corsa. Aveva il jolly del senso dell’umorismo (origini ebree tedesche del padre) che lo salvava dagli stereotipi e si dedicava spesso e volentieri ai personaggi infelici, perdenti come l’avvocato alcolizzat­o del «Verdetto» di Lumet, vagabondi alla Faulkner, belli e dannati vittime di occhi azzurri. Di botte sul set ne ha prese tante ma alla fine un solo Oscar, vinto col «Colore dei soldi», il seguito dello «Spaccone», la storia del campione Eddie Felson. Fedele allo spirito dell’Actor’s Studio imparò nel ’61 a giocare a biliardo, e poi ovviamente ad andare a cavallo anche pericolosa­mente, a fare il rodeo, suonare il trombone: ma il fine ultimo era il mestiere di sopravvive­re in mezzo all’organizzat­a finzione del mondo dello spettacolo.

 ??  ?? Cult di sponda Paul Newman in «Lo spaccone» di Robert Rossen (1961). Fedele all’Actor’s Studio imparò a giocare
Cult di sponda Paul Newman in «Lo spaccone» di Robert Rossen (1961). Fedele all’Actor’s Studio imparò a giocare

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