CAPITANO E MILANESE NEI FATTI
Un cognome pesante. Una biografia essenziale. L’Inter nel cuore. La milanesità come stile di vita. Se c’è qualcosa che Gian Marco Moratti ha difeso per tutta la vita è il suo modo di esserci con i fatti e non con le parole.
Understatement nella variante ambrosiana, che non vuol dire distacco. Si poteva sempre contare su di lui. Anche quando non appariva. Anche quando si doveva intervenire oltre la gestione della Saras, l’azienda di famiglia fondata dal padre Angelo.
C’era lui dietro San Patrignano, la comunità antidroga a immagine e somiglianza di Vincenzo Muccioli. C’era lui dietro il fratello Massimo, presidente dell’Inter del
triplete, felice di un successo di famiglia. E c’era lui dietro l’avventura politica della moglie Letizia, prima ministro e poi sindaco di Milano, orgoglioso della conquista dell’Esposizione universale del 2015, per il quale aveva dato un sostegno pieno e convinto. «Un marito con il quale ho condiviso tutto, sempre vicino nelle scelte importanti della vita, sempre pronto a sostenere idee e nuovi progetti», diceva il primo cittadino dal 2006 al 2011.
«Gian Marco era un ragazzo speciale, un imprenditore entusiasta e generoso», lo ricorda Lina Sotis, che a diciott’anni fu la prima moglie. È difficile trovare qualcosa di diverso nei ritagli d’archivio, nelle dichiarazioni di imprenditori, colleghi, amici.
Discreto, sensibile, capace di sostenere con coraggio i progetti nei quali credeva, nemico dell’ostentazione, legatissimo alla famiglia, ai figli, Angelo e Francesca, Gabriele e Gilda, sempre a fianco di Letizia di cui ammirava la passione civile e la determinazione nel lavoro. Ma c’è un altro distintivo che Gian Marco Moratti si può appuntare con orgoglio: quello di non aver deluso le aspettative, di non essere incluso nella categoria dei «figli di», quella seconda generazione incapace di mantenere i risultati dei padri fondatori. E lui aveva un padre importante a Milano e in Italia, un padre al quale negli anni Sessanta tutti volevano assomigliare: Angelo Moratti, capitano d’industria, ricco, facoltoso, uomo d’impresa e di charme, presidente della mitica Inter di Herrera, quella di Sarti Burgnich, Facchetti, delle notti magiche di San Siro e delle coppe alzate al cielo, dei Campioni e intercontinentali.
Gian Marco, con il fratello Massimo, di otto anni più giovane, si è trovato sulle spalle l’azienda specializzata nella raffinazione del petrolio, ne ha consolidato i successi, l’ha portata in Borsa, ha mantenuto l’occupazione e i posti di lavoro. C’è un’immagine tenera e simpatica che inquadra i due fratelli, Gian Marco e Massimo, sulla tribuna di San Siro, durante un derby milanese. È una foto premonitrice, è l’immagine di una passione calcistica che il nome Moratti ha reso indissolubile per i tifosi interisti. Anche quando il nome Moratti è stato associato a quello di una dynasty, per gli intrecci tra sport e politica, tra petrolio e affari, non è mai mancata una corrente di simpatia e di affetto verso i due fratelli imprenditori con la bandiera nerazzurra al collo.
Negli anni di Letizia Moratti sindaco, l’appoggio di Gian Marco è stato totale. «Nel rispetto dei ruoli», ha ricordato l’ex sindaco, «ho sempre avuto da lui un sostegno pieno e affettuoso». Gian Marco Moratti si è speso senza apparire, senza essere ingombrante, lasciando sempre la scena a Letizia, senza mai apparire un marito al seguito. Anche in questo molto milanese. «Professionalità, cultura del lavoro ben fatto, fantasia, tenacia e bonomia», ha scritto Carlo Castellaneta a proposito della milanesità. Un mix al quale Gian Marco aderiva senza sforzo. Con un tratto speciale, che era il suo.