La difesa dei ciclisti «Costretti a correre per lavorare di più»
I rider: per noi responsabilità ma non tutele
«Dobbiamo pedalare velocissimi, per fare un numero più alto di consegne. Se almeno l’azienda ci desse in dotazione il caschetto...».
Dominic Ayoka, 22 anni, è arrivato dal Ghana. Vive in un centro di accoglienza per rifugiati. Qualche mese fa ha trovato lavoro come rider di Uber eats, la versione food delivery della app di trasporto persone. E non passa giorno che non ringrazi per questa opportunità. Eppure solleva il tema delle tutele mancanti, così come molti dei suoi «colleghi». I cittadini si lamentano che i pony express non rispettino le regole, e loro si difendono: «Per forza che andiamo come schegge, anche contromano o a zig zag tra le macchine: siamo pagati a cottimo, dobbiamo massimizzare. Se fossimo remunerati un tanto all’ora, saremmo più prudenti — valuta Pablo Gelvez, 28 anni, originario della Colombia, studente al Politecnico e per tre ore al giorno al servizio di Foodora —. Guadagno in media 150 euro a settimana e corro come un matto, così mi pago la resi- denza dove vivo». La flessibilità dell’impegno è il vantaggio più apprezzato, la pressione sui tempi l’aspetto più stressante e pericoloso. «Andiamo anche sui marciapiedi, ma è il modello di business che ci impone di farci furbi — dice Matteo Forresu, 32 anni, laureato in Lettere che dopo tante ricerche a vuoto ha «finalmente» trovato impiego con Uber eats —. Se ho da consegnare un frullato in fondo a corso Italia, percorso tutto pavè e rotaie, pedalando su strada arriverei con la bibita tutta fuori dal bicchiere. Il cliente scriverebbe subito la lamentela via app, e se ne cumuliamo troppe rischiamo ci riducano o sospendano gli incarichi. Allora ci arrangiamo, e chiediamo scusa se diamo fastidio a qualcuno».
Dovrebbero esserci più piste ciclabili, concordano i rider che sfrecciano per la città: ormai sono migliaia, e continuano ad aumentare. «Tantissimi vengono da fuori e neppure conoscono bene Milano — ammette ancora Dominic —. Rischiamo incidenti, per noi e per gli altri, ad esempio se guardiamo il navigatore mentre pedaliamo in mezzo al traffico». Un kit di sicurezza dovrebbe essere dato in dotazione dall’azienda, eppure non sempre è così. «Foodora consegna caschetto e luci, siamo fortunati — nota Luca Schiavetta, 28 anni —. Sta a noi ricordarci di usarlo, nella fretta tanti si dimenticano. Quando facevo il corriere in furgone mi divertivo meno, ma mi sentivo più protetto».
Il problema è anche per chi va in motorino, aggiunge Francisco Arce, 25 anni, di Glovo: «Finiamo una consegna e già vediamo sul display che ci sono altri servizi in coda. Una sorta di lista d’attesa dei possibili guadagni. Ci viene la smania di fare presto. Io spesso parcheggio il mezzo dove capita, quando corro su, a fare la consegna sul pianerottolo...», ammette. Deliveroo (che fornisce caschetto, luci e un abbigliamento catarifrangente), paga con remunerazione oraria. «Aveva annunciato cambiamenti in questo senso, ma spero che non passi mai alla paga a cottimo. Già così siamo pressati — auspica Inaam Ahmed, 25 anni, dal Pakistan — I ristoranti sono spesso in ritardo, arriviamo per il pick up e il sacchetto non è ancora pronto, ci sono tanti rider di compagnie diverse, tutti in attesa. Sta a noi, poi, recuperare. Pedalando veloci».
I pony
È il modello di business che impone di sfrecciare Per essere pagati dobbiamo rischiare