Corriere della Sera (Milano)

La difesa dei ciclisti «Costretti a correre per lavorare di più»

I rider: per noi responsabi­lità ma non tutele

- Elisabetta Andreis

«Dobbiamo pedalare velocissim­i, per fare un numero più alto di consegne. Se almeno l’azienda ci desse in dotazione il caschetto...».

Dominic Ayoka, 22 anni, è arrivato dal Ghana. Vive in un centro di accoglienz­a per rifugiati. Qualche mese fa ha trovato lavoro come rider di Uber eats, la versione food delivery della app di trasporto persone. E non passa giorno che non ringrazi per questa opportunit­à. Eppure solleva il tema delle tutele mancanti, così come molti dei suoi «colleghi». I cittadini si lamentano che i pony express non rispettino le regole, e loro si difendono: «Per forza che andiamo come schegge, anche contromano o a zig zag tra le macchine: siamo pagati a cottimo, dobbiamo massimizza­re. Se fossimo remunerati un tanto all’ora, saremmo più prudenti — valuta Pablo Gelvez, 28 anni, originario della Colombia, studente al Politecnic­o e per tre ore al giorno al servizio di Foodora —. Guadagno in media 150 euro a settimana e corro come un matto, così mi pago la resi- denza dove vivo». La flessibili­tà dell’impegno è il vantaggio più apprezzato, la pressione sui tempi l’aspetto più stressante e pericoloso. «Andiamo anche sui marciapied­i, ma è il modello di business che ci impone di farci furbi — dice Matteo Forresu, 32 anni, laureato in Lettere che dopo tante ricerche a vuoto ha «finalmente» trovato impiego con Uber eats —. Se ho da consegnare un frullato in fondo a corso Italia, percorso tutto pavè e rotaie, pedalando su strada arriverei con la bibita tutta fuori dal bicchiere. Il cliente scriverebb­e subito la lamentela via app, e se ne cumuliamo troppe rischiamo ci riducano o sospendano gli incarichi. Allora ci arrangiamo, e chiediamo scusa se diamo fastidio a qualcuno».

Dovrebbero esserci più piste ciclabili, concordano i rider che sfrecciano per la città: ormai sono migliaia, e continuano ad aumentare. «Tantissimi vengono da fuori e neppure conoscono bene Milano — ammette ancora Dominic —. Rischiamo incidenti, per noi e per gli altri, ad esempio se guardiamo il navigatore mentre pedaliamo in mezzo al traffico». Un kit di sicurezza dovrebbe essere dato in dotazione dall’azienda, eppure non sempre è così. «Foodora consegna caschetto e luci, siamo fortunati — nota Luca Schiavetta, 28 anni —. Sta a noi ricordarci di usarlo, nella fretta tanti si dimentican­o. Quando facevo il corriere in furgone mi divertivo meno, ma mi sentivo più protetto».

Il problema è anche per chi va in motorino, aggiunge Francisco Arce, 25 anni, di Glovo: «Finiamo una consegna e già vediamo sul display che ci sono altri servizi in coda. Una sorta di lista d’attesa dei possibili guadagni. Ci viene la smania di fare presto. Io spesso parcheggio il mezzo dove capita, quando corro su, a fare la consegna sul pianerotto­lo...», ammette. Deliveroo (che fornisce caschetto, luci e un abbigliame­nto catarifran­gente), paga con remunerazi­one oraria. «Aveva annunciato cambiament­i in questo senso, ma spero che non passi mai alla paga a cottimo. Già così siamo pressati — auspica Inaam Ahmed, 25 anni, dal Pakistan — I ristoranti sono spesso in ritardo, arriviamo per il pick up e il sacchetto non è ancora pronto, ci sono tanti rider di compagnie diverse, tutti in attesa. Sta a noi, poi, recuperare. Pedalando veloci».

I pony

È il modello di business che impone di sfrecciare Per essere pagati dobbiamo rischiare

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In pericolo Il rider Dominic Ayoka, ghanese, 22 anni, lavora per Uber eats. Ringrazia la app ma ne sottolinea i rischi intrinseci

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