Corriere della Sera (Milano)

Clochard morto di freddo, la moglie: sepolto senza dignità

Il corpo inumato in un sacco. «Avremmo anche pagato la vestizione, non abbiamo potuto fare nulla»

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«La dignità è di tutti gli uomini. Anche dei clochard, oppure no? Essere infilati nella bara chiusi dentro ad un sacco nero, invece che vestiti bene, toglie al rito l’umanità e ai parenti il fiato. Abbiamo dovuto sopportare uno spettacolo immorale».

Katia Ferrati, impiegata ed ex moglie di Massimilia­no Rovelli, senzatetto di 47 anni trovato morto due settimane fa in via Pisani, ha scritto al sindaco una lettera dove manifesta tutta la sua tristezza.

«Avevamo incaricato una agenzia funebre per l’organizzaz­ione e l’impresa aveva concordato con gli operatori dell’obitorio comunale di piazzale Gorini che si sarebbero occupati loro di vestire la salma per la funzione», spiega la signora. È stata sposata con Massimilia­no per 17 anni, fino al 2012, e con lui ha avuto un figlio, Luca, affezionat­issimo al padre. «Il giorno dopo il decesso, il 28 febbraio, abbiamo portato all’obitorio alcuni vestiti belli, comprati apposta per la sepoltura di Massi». Ma quegli abiti non sono mai stati utilizzati.

«I dipendenti dell’obitorio non hanno neanche tirato fuori dal sacco il corpo del mio ex marito — si arrabbia la signora —. È stato messo così, come era arrivato in piazzale Gorini, dentro la bara».

Il responsabi­le dell’obitorio, Mauro Marrapodi, ripercorre la vicenda. «La salma era in uno stato di degrado tale che abbiamo riferito agli uffici funerali del Comune di via Larga che non riuscivamo a vestirla. Abbiamo chiesto di per l’ultimo saluto e fatto la scoperta. «La salma, ovvero il saccone nero, era stato incassato dall’impresa direttamen­te nella bara — inorridisc­e la signora —. Eppure la informare le pompe funebri», si dispiace. Era già la vigilia del funerale, nessuno ha detto nulla ai parenti che il giorno delle esequie, il 3 febbraio, sono arrivati alla camera mortuaria vestizione è un servizio a pagamento, nessuno si era rifiutato di pagarlo. A quel punto era troppo tardi, io e mio figlio non abbiamo potuto fare niente. Una cosa simile non deve succedere a nessun altro». Lo sgomento resta affidato alla lettera indirizzat­a al Comune: «Il mio ex marito ha lavorato come cuoco, versato contributi per anni. Aveva una famiglia, un figlio, degli amici. Anche problemi legati all’alcool, aveva provato a curarsi in tante comunità. Ultimament­e si era isolato e da agosto dormiva in strada perché rifiutava di ripararsi da noi o nei centri di accoglienz­a. Nessuno ha il diritto di giudicarlo. Era un cittadino come tutti gli altri e meritava rispetto».

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Il giaciglio Via Vittor Pisani, dove viveva ed è morto Massimilia­no Rovelli

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