«Io, nel vagone con la tribù del sabato notte»
Sabato sera, undici e un quarto. Turno finito, metropolitana verso il più o meno meritato riposo. Treno per Gessate, penultima carrozza come sempre (sono un abitudinario e poi mi è comoda per l’uscita, all’arrivo). Sale un gruppetto di ragazzi e ragazze. Vent’anni, forse meno. Un po’ su di giri e vocianti, ma da non farci quasi caso. Alla fermata dopo, però, il gruppetto diventa tribù. Quale, non saprei dire, m’intendo poco di bestiario metropolitano. Qualcuno ha i capelli a metà tra il rasta e il mohicano, molti sembrano avere una predilezione per le taglie extralarge. Di sicuro sono almeno una trentina, forse quaranta. E adesso sì, che si fanno notare. Pugni e manate contro porte e finestrini, urla e bestemmie a profusione. C’è una che si vanta d’essersi «calata» una mezza farmacia di pasticche (segue elenco). Almeno quattro attorno a me, compreso il tizio che mi sta seduto accanto, stanno fumando con nonchalance uno spinello. Altri bevono a turno da una bottiglia che non dev’essere di camomilla. Sento qualcuno di loro dire che devono scendere a Cernusco sul Naviglio e me stesso pensare «speravo prima». A occhio, deve pensarlo anche la signora cinese seduta di fronte a me, con una faccia più spaventata che perplessa. Almeno quando la intravedo nella calca, di solito a ogni frenata o accelerata, quando qualcuno della tribù rotola per terra. Non che facciano troppo caso a me o ad altri. Però diciamo che non ti vien voglia di far sommessamente notare il divieto di fumare o di aprire un franco dibattito sull’utilità dei sostegni metallici per la propria e l’altrui incolumità. A ogni fermata, le porte restano aperte più del solito. Il metrò sembra non voler ripartire mai. Mi sorprendo ad augurarmi che sia perché sta per intervenire qualcuno a riportare un po’ d’ordine e di calma. Non succede. Pazienza, sono arrivato. Mentre scendo sento una ragazza urlare «la nostra forza è il disprezzo». Contenta lei...