Luca Barbarossa «Nel dialetto c’è verità»
«È una città generosa, piena di stimoli. Mi ricordo quando facevo il baby sitter a casa di Shel Shapiro»
Intitolare un disco «Roma è de tutti», oggi, suona come un invito ad accantonare le divisioni per il bene comune. E a tal proposito Luca Barbarossa, autore dell’album che sentiremo dal vivo domani al Dal Verme, non ha intenzione di nascondersi dietro a un dito: «Purtroppo la mia città è arrivata al suo minimo storico e ora ha bisogno di ricostituirsi soprattutto da un punto di vista etico», osserva. «Ma è necessario comprendere che questa sfida è di ciascuno di noi». Classe 1961, il cantautore ha pubblicato questo 11esimo capitolo della sua carriera in concomitanza con la partecipazione al Festival di Sanremo con «Passame er sale», tra i brani del disco. «Non si può mettere in croce una giunta perché ci sono le buche e i bus non vanno: se i soldi non ci sono, non ci sono». Suggerimenti?
«Un intervento del governo centrale. C’è la stata la connivenza di tutti rispetto a certi malaffari, ci sono state gestioni scellerate, da una parte e dall’altra. Ciò che mi fa più rabbia è che forze politiche continuano a dare risposte semplici a problemi complessi, per raccattare voti. Io sono per il modello Milano».
Che cosa le piace di Milano?
«Milano è una città in divenire, sempre piena di stimoli e progetti nuovi. Ho un rapporto viscerale con corso Sempione, perché spesso vado in onda dalla sede Rai che c’è lì per il mio programma “Radio 2 Social Club”. E non resisto alla vostra Chinatown: appena posso mi riempio di fritti, spring roll, ravioli».
Ha scritto l’album in romanesco: come mai?
«È la lingua che parli quando non indossi maschere. Quando scrivi in dialetto — quello romano, poi, è più un italiano pigro, sporcato dal- l’accento — affiora una verità che non è solo la tua, la filosofia di una città, le generazioni che ci sono state prima, le voci dei cortili, della strada».
Il disco si divide tra ironia e vicende drammatiche.
«Vicende ambientate a Roma, ma che riguardano tutti e che possono accadere ovunque, come la storia di un ragazzo di colore ucciso da un branco in “Madur”».
Anche nel primo disco c’era la sua città: «Piazza Navona», «Roma spogliata»…
«Quel disco lo feci con la Fonit Cetra, che stava in via Meda a Milano. Per il primo appuntamento — era il 1980 — presi un treno notturno da Roma. Poi scoprii questa realtà stupenda, dove, oltre agli uffici dell’etichetta, c’erano lo studio di registrazione e la fabbrica dove si stampavano i vinili. E lì conobbi il mio primo produttore, Shel Shapiro. Non avevo una lira, quando salivo mi ospitava a casa sua, in cambio facevo il baby sitter. Quando non c’era “X Factor” funzionava così».