Branzi, l’arte e il design «Qui tutto è possibile»
Il progettista: oggi giovani più pronti ad affrontare il futuro. E crescono le donne
Meno sette giorni a Miart, meno 15 al Design week, Milano entra nella sua primavera culturale con un serpentone di eventi che dal 9 aprile condurrà fino alla chiusura del Mobile, il 22. Migliaia di appuntamenti, tra le gallerie che si aprono al panorama internazionale e le installazioni nei distretti del Fuorisalone. Gru già in azione in piazzetta Reale, per esempio, dove il Salone ufficiale racconterà a chi non va in fiera non solo la primavera dell’abitare ma tutte le Quattro stagioni con un’installazione d’autore (firmata Ratti e Blanc), a forma delle losanghe della pavimentazione della piazza, il cui scheletro bianco è già visibile a chi passeggia in Duomo. Solito fermento della vigilia, il Corriere ha chiesto al progettista Andrea Branzi — 79 anni (di cui 45 a Milano) e una carriera incastonata nelle permanenti esposte dal Pompidou al Victoria and Albert Museum — di raccontare lo stato dell’arte (e del design) della città che, almeno per una settimana l’anno, si veste da capitale. Anno 2018, dopo l’Expo e la Triennale: che vetrina è diventata oggi Milano?
«La settimana del Mobile resta un fenomeno unico al mondo, anche se il design si sta ormai diffondendo ovunque e nessuna impresa può pensare di sopravvivere alla competizione globale senza sapere cosa accada in Cina o in Sudamerica. Durante il Salone ci sono parecchie centinaia di iniziative: non si vede nulla di simile in giro. Solo qui si riescono a raccontare tutte le tendenze creative della cultura del progetto, in una sorta di semiosfera dove i diversi linguaggi danno origine a qualcosa di nuovo. A differenza di Germania, Francia e Usa, dove le impostazioni sono o molto tradizionali o legate all’artigianato o al mero sviluppo tecnologico promosso dalle grandi industrie». Ma in questo «mare magnum» di location, prodotti e avanguardie non c’è anche il rischio di perdersi?
«Ognuno si aspetta novità e, certo, muoversi non è facile. Tutto è opinabile e transitorio ma a mio avviso è proprio questa la parte più interessante. Progettare è diventata una professione di massa, in senso positivo. E quindi più esteso è il margine di confronto più alte sono le disponibilità alla collaborazione. Ogni nazione sviluppa design, perché tutto il sistema industriale e commerciale ha bisogno di evolversi. Una “energia dell’innovazione” che risponde alla domanda mondiale. Per questo ci sono sempre più designer e più università. Non solo prodotti razionali o funzionali ma soprattutto idee, che a Milano trovano un luogo unico di dialogo. Qui s’indaga sull’impensato».
Le energie sono tante e la sintesi può essere difficile, come dimostrato dal confuso dibattito sul museo del design cittadino...
«Oltre al contesto sperimentale descritto, nel design sopravvive un mercato di collezionisti molto vicino all’arte. E le industrie sono lente nel reagire agli stimoli dal basso. Per questo lo scenario avrà sviluppi affascinanti».
Non si sente la necessità di una mediazione?
«Beh sì. Per esempio, sarebbe ora che le amministrazioni trovino il modo di offrire spazi pubblici al design». Quale generazione di designer sta crescendo?
«Oggi aumentano le scuole con la tendenza a formare autodidatti in grado di cavarsela da soli, data la rapidità con cui cambia il mondo: non s’insegna più il progetto ma si pensa a formare il progettista senza riprodurre stereotipi e valorizzando le singole qualità senza schiacciarle nel predeterminato. Anche questo è molto interessante: noto giovani più capaci di affrontare problemi diversi ed è l’industria oggi che tende ad adeguarsi a questa sorta di improvvisazione. Le università di design non sono fabbriche di disoccupati. E anche lo scenario interno cambia. Aumentano le studentesse, fatto storico, il che potrà portare più delicatezza, più sensibilità e più intelligenza». Milano città del design. Ma quale città d’arte? «Milano ha una lunga storia di maestri del design e un importante supporto di istituzioni come Politecnico e Triennale. L’arte invece aveva grandi figure milanesi che oggi latitano. L’andare ognuno dalla propria parte, tipico della contemporaneità, stavolta è un limite, sembra si tratti di religioni rivelate che parlano soltanto ai loro adept i . Se per i l des ign è un’epoca interessante, per l’arte è più enigmatica».
Il periodo storico
Milano è unica perché organizza eventi, genera e mette in circolo idee È un’epoca interessante