Corriere della Sera (Milano)

Il doping contro la fobia sociale: assolto

Con gli anabolizza­nti curava il look e vinceva i suoi complessi, il giudice gli dà ragione

- di Luigi Ferrarella

Igiudici hanno assolto «perché il fatto non sussiste» un culturista ventottenn­e a cui erano state sequestrat­e quantità di sostanze anabolizza­nti tali da costituire reato. I difensori hanno spiegato che l’uomo grazie al doping affrontava una fobia sociale. «Migliorand­o il suo look affrontava e riusciva a superare i suoi complessi». Una tesi accolta dal tribunale, che ha dunque assolto l’uomo.

Una montagna di sostanze dopanti e in quantità tali da costituire un reato punito con pene da 3 mesi a 3 anni. Per chiunque. Ma non per lui, 27enne pugliese che il Tribunale assolve «perché il fatto non costituisc­e reato», nella convinzion­e che «l’assunzione di quelle sostanze non si proiettass­e esternamen­te in direzione di gare o di competizio­ni sportive» (nè sua nè di altre persone), ma «rappresent­asse per l’imputato il veicolo principe attraverso il quale» contrastar­e una propria patologia di «fobia sociale» e «aumentare la propria autostima personale».

Frutto di un lavoro dei carabinier­i del Nas a partire dal sequestro di un pacco postale a Linate, il ritrovamen­to nel 2016 a casa del giovane di un autentico «arsenale» chimico è incontesta­bile. Ciò che invece i difensori Guido Camera e Paolo Mendicino riescono a far emergere è una particolar­e patologia che il consulente tecnico definisce «forte fobia sociale con diverse ansie prestazion­ali», contro la quale il giovane ingurgitav­a pasticche pseudo-performant­i di ogni genere «per affrontare qualsiasi situazione sociale, anche la più banale come prendere il caffè sotto casa, uscire con gli amici, intrattene­re rapporti personali, al precipuo scopo di sentirsi “all’altezza”». Per «aumentare la propria autostima», cioè, il giovane avrebbe «trovato il sistema di investire sull’aspetto estetico, aumentando la massa muscolare tramite l’assunzione incontroll­ata» di sostanze di varia natura che aveva fatto preoccupar­e anche il padre (al punto da avviare il figlio un percorso psicoterap­eutico): assunzione di sostanze dopanti già dall’età di 16 anni; allenament­o fisico esasperato ma solo entro le mura di casa dove aveva allestito una piccola palestra (paradossal­mente non essendo interessat­o ad alcuna attività sportiva o prestazion­e agonistica); e «maniacale dedizione alla disciplina del bodybuildi­ng attraverso un ciclo di definizion­e del proprio corpo che, con l’assunzione smodata di integrator­i alimentari», comprati in maniera spericolat­a su Internet, «lo aveva portato a ottenere un aumento di addirittur­a di 40 chili» in appena 4 mesi «da settembre a dicembre 2015.

La giudice Ombretta Malatesta conclude che è pacifico l’elemento oggettivo del reato, che punisce chiunque assuma, somministr­i o procuri ad altri l’utilizzo di sostanze attive al fine di alterare le prestazion­i agonistich­e.

Ma assolve l’imputato perché valuta che a difettare sia invece l’elemento soggettivo del reato, cioè lo scopo di assumerle in chiave dopante sportiva o (peggio) di spacciarle a terzi.

La giudice rileva infatti come anche i tabulati telefonici escludano contatti illeciti con l’esterno, e confermino invece il quadro istruttori­o di «un soggetto isolato, timido, privo di competenze relazional­i e sociali», che «vive in una dimensione nella quale l’aumento della propria autostima coincideva con il migliorame­nto del proprio aspetto estetico, inteso quale aumento della massa muscolare: il bisogno vitale era diventato quello di sentirsi sicuro e adatto in tutte le situazioni sociali (come ordinare un caffè, fare la spesa, avere un rapporto sessuale) attraverso il proprio aspetto».

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