PERIFERIA IL LINGUAGGIO DISCRIMINA
Sarà forse superfluo ricordarlo ma nei nostri comportamenti quotidiani è sempre in gioco il sentimento della nostra identità individuale e il riconoscimento altrui della sua dignità. In una città europea la nostra civitas è retta dal principio dell’eguaglianza tra tutti i cittadini, ma a dispetto di questo principio abitiamo in quartieri diversi, che rispecchiano in linea di massima i ceti sociali, e i programmi politici che vorrebbero attenuare questa diversità l’hanno in questi anni accentuata nel loro stesso lessico mettendo in campo la nozione di quella «periferia» distinta dal «centro», dove abiterebbero cittadini di secondo rango. «Nomina sunt consequentia rerum» ricordava Dante, e il ricorso a una parola, la «periferia», evoca in se stessa una minore dignità dei cittadini che abitano in quei nuovi quartieri, il cui nome stesso comporta quasi un marchio ideale, «sono un abitante della periferia». Secondo questi programmi le «periferie» sarebbero quei quartieri dove manca un giardinetto o una piscina o una piazzetta, che a darglieli faremmo contenti i loro abitanti: solo che queste benevolenze non costituiscono il riconoscimento della loro dignità di cittadini della città intera. Perché per secoli sono cresciuti intorno al centro — ad affiancare le contrade di nobili dietro al palazzo ducale — borghi popolari le cui chiese e le cui porte ne costituivano un corredo monumentale che era anche, tuttavia, un arricchimento del decoro della città intera, come lo saranno corso Sempione o le cinture dei boulevard nell’ultimo secolo. Così dovremmo essere anche noi capaci oggi di fare, incominciando dalle parole per incidere sui concetti, abolendo quelle parole che costituiscono in sé medesime un virtuale spregio alla dignità dei loro abitanti, prime fra tutte «rammendare le periferie», che se ne fossi un abitante mi spingerebbe ad esprimere il mio risentimento contro gli spocchiosi abitanti del centro nelle urne elettorali.