Mario Perrotta al Teatro Studio «Il mio Telemaco arrabbiato nel Salento degli anni Sessanta»
Perrotta «vendica» Telemaco in una rilettura antieroica e dialettale del mito di Ulisse
Venghino, venghino: la compagnia grandi spettacoli di Telemaco presenta la storia di Ulisse, eroe mancato, padre bugiardo, bluff della leggenda. Così racconta, truccato da guitto, giacchetta a righe da artista di varietà e viso coperto di biacca, il figlio più famoso della storia. È per la prima volta protagonista nell’«Odissea» di e con Mario Perrotta che termina la sua navigazione nel ruolo di figlio, alternando Omero, endecasillabi e dialetto leccese. «Lo spettacolo mi serve per chiudere i conti di figlio che ha avuto genitori separati, da post legge sul divorzio, ma non rapporti burrascosi col padre lontano fisicamente ma non emotivamente. Pensando a Telemaco, sempre meno noto del cane Argo, ho pensato a un suo scatto di rabbia violenta contro l’assenza del padre. Aveva ragione di restare in attesa estatica di Ulisse? Mito ed etica lo reclamano, ma il mio Telemaco, portato in un Sud d’Italia degli anni 60, s’arrabbia, denuncia un padre eroe da quattro soldi sempre in giro, un uomo di cartone refrattario alle responsabilità: Ulisse, fuori dal mito che lo ammanta di multiforme ingegno, è infatti il primo anti eroe novecentesco della letteratura». Ulisse primo uomo senza qualità? «Avvertito dagli Dei, vive di menzogna, pochi i suoi stratagemmi, il Cavallo di Troia e il Ciclope. Del resto Dante lo punisce per un desiderio di conoscenza che lo porta a dimenticare la famiglia e il ritorno». Il bello è che questo racconto diventa show di varietà, come fosse Petrolini o Taranto. «Il mio Telemaco sa che il padre non ha alcuna voglia di tornare. Per esigenze di teatro metto a contatto Telemaco con un ricordo della mia infanzia, un certo Antonio Delle Cozze, che gestiva silenzioso traffici in una spiaggia abbandonata del Salento, unico baracchino in una roulotte in un campo incolto di sterpi e canneti. Antonio, sguardo da lupara, aveva tatuato il nome della moglie uccisa con l’amante, vendeva cozze e immagino che le offrisse al Mare, incapace di aprirle. Allora lui le apre e in cambio il Mare gli racconta le storie di chi lo attraversa, Ulisse compreso».
Realtà e leggenda si mescolano. Pietà, serietà e varietà uniscono l’accento finale, si ricordano con slalom temporale le vedove bianche dei lavoratori partiti negli anni 50, Penelope compresa: non potevano neppure uscire di casa, vivendo di castità, murate vive. «Il mio Telemaco, pagliaccio e fine dicitore, ha circa 20 anni ma è senza tempo, vive a metà tra Itaca e il Salento di oggi: casa mia di bambino era più vicina a Itaca che a Milano. Ed ecco un avanspettacolo nell’agorà del paese in cui sfogo la corda pazza pirandelliana davanti a tutti, vera piazzata. Faccio l’occhio alla Carmelo Bene, citando un uomo nato a tre chilometri da me e uso la partitura musicale di due musicisti eccellenti: Maurizio Pellizzari e Mario Arcari, collaboratore di De Andrè, Fossati, della London Symphony Orchestra. Tre quarti di spettacolo sono a tempo musicale e ho scritto pezzi in endecasillabi per stare dentro le note, arrivando a raccontare il brano del Ciclope, reietto con un occhio solo, col II atto della Traviata. Le musichette d’avanspettacolo sono il terzo personaggio, là dove non arrivano le parole. Io amo il varietà, se fossi nato nel 1910 avrei fatto la rivista».