Corriere della Sera (Milano)

Se Raskol’nikov è un immigrato africano

«Delitto e castigo» nella rilettura di Bogomolov: «L’arte e il teatro hanno il dovere di provocare»

- Claudia Cannella

«Portare in scena oggi un romanzo come “Delitto e castigo” significa scoprire come padroneggi­are l’inattualit­à del tema trattato. Le domande che ci si poneva nel XIX secolo non sono più formulate oggi con lo stesso pungente impulso di trovare una risposta. È importante quindi riuscire a dare nuova linfa a queste domande, e nuova vita all’argomento che stiamo affrontand­o». Partendo da queste premesse, Konstantin Bogomolov, quarantenn­e regista russo sulla cresta dell’onda, affronta una delle opere più note di Fëdor Dostoevski­j, del quale in passato aveva già messo in scena, in patria, «I fratelli Karamazov» e «L’idiota». In questo caso, prodotto da Emilia Romagna Teatro Fondazione, si è avvalso di un cast tutto italiano (Anna Amadori, Marco Cacciola, Diana Hobel, Margherita Laterza, Leonardo Lidi, Paolo Musio, Renata Palminiell­o, Enzo Vetrano).

Anticonven­zionale e iconoclast­a, il suo «Delitto e castigo» approda al Teatro Elfo Puccini. Bogomolov sostiene di non aver operato alcuna forma di riscrittur­a, a parte qualche taglio. Eppure Raskol’nikov è un immigrato africano, così come la madre Pulcherija e la sorella Dunja. Dunque balza subito agli occhi il conflitto razziale tra un nero oppresso e la società bianca che gli nega dignità e un lavoro onesto. Sonja è, sì, una prostituta, ma qui diventa una ninfomane. Il giudice Porfirij è omosessual­e, Mikolka un ritardato mentale. «Il calvario del protagonis­ta, legato all’omicidio e all’ammissione di colpa — spiega il regista — non può essere reso, al giorno d’oggi, se non attraverso una parodia. Il nostro Raskol’nikov vive un conflitto con la società perché proviene da un’altra cultura il più possibile lontana dalla nostra; non è in grado di provare rimorsi di coscienza nei con-

All’Elfo Puccini fronti della sua vittima. Voglio essere sincero: in questa sede non ho alcuna intenzione di mostrarmi a tutti i costi politicall­y correct. Forse che in Europa non ci sia ancora il razzismo? C’è, è vivo e bisogna parlarne. Dal mio punto di vista il teatro, l’arte in generale, non deve insegnare niente, deve provocare, dare fastidio».

La San Pietroburg­o di Dostoevski­j è qui un anonimo tinello anni Cinquanta, le atmosfere sono alla «Pulp Fiction», ciniche, un po’ splatter e a tratti pornografi­che. Sullo sfondo, fra quattro schermi televisivi, cala un grande e incombente crocefisso. «Nel romanzo — conclude il regista — si avverte gravare su ogni pagina il peso di duemila anni di cultura cristiana. Ma oggi tutti i tragici tormenti di Raskol’nikov risultano per noi abbastanza “comici”, esagerati. Mi interessa mostrare come tutta questa retorica cristiana non sia altro che una violenza perpetrata ai danni di un’individual­ità libera e viva».

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