Adamello, svelato il giallo dell’alpino
I resti trovati ad agosto: vittima della Grande Guerra, identificato con una cartolina
Una camicia grigioverde lacera, un paio di scarponi, alcune cartoline divenute poltiglia. Questi resti, trovati sull’Adamello lo scorso 8 agosto, appartenevano all’alpino Rodolfo Beretta, nato a Besana in Brianza il 13 marzo 1886 e morto durante la Grande Guerra. «Non durante un combattimento, ma per una valanga», spiega l’archeologo Franco Nicolis autore della scoperta. «L’alpino stava portando il rancio ai suoi commilitoni quando fu ucciso».
Una camicia grigioverde lacera, vecchi scarponi da montagna, cartoline e timbri postali divenuti una poltiglia di carta. Poco altro. Ma abbastanza per ridare un nome e un cognome — Rodolfo Beretta, nato il 13 marzo 1886 a Besana in Brianza — a un alpino dalle generalità sconosciute i cui resti vennero trovati lo scorso 8 agosto da un escursionista sull’Adamello, a Punta San Matteo, vetta a quota tre mila metri tra Lombardia e Trentino. Confine che durante la Grande Guerra divideva, all’incirca, l’Italia dall’Austria. Posti impervi nei quali la linea del fronte si spostò assai di poco durante il conflitto. «Più che per i combattimenti, sia da una parte che dall’altra si moriva per valanghe, malattie, freddo e stenti», spiega Franco Nicolis, il direttore dell’Ufficio beni archeologici della Soprintendenza ai beni culturali di Trento che ha ridato un’identità al soldato ignoto. Non solo. Certi dettagli, come in un
cold case, hanno permesso di ricostruire gli istanti in cui Rodolfo morì, travolto da una valanga mentre svolgeva una corvée indispensabile: «Portare il rancio — è la ricostruzione dell’archeologo — ai commilitoni in prima linea»
Mica semplice, su quelle cime tra gelo e neve. «Parliamo di una vera e propria scalata: gli alpini si spostavano in cordata, ma essendo sprovvisti di funi da montagna, avevano usato cavi telefonici». Quelli aggrovigliati attorno al petto di Rodolfo e di un altro alpino — questo ancora senza nome — i cui resti furono trovati a un centinaio di metri, nel 2016.
Il cadavere del soldato brianzolo, restituito dal ghiacciaio ritirato per effetto del riscaldamento globale, era in stato di «saponificazione», quasi mummificato. Aveva poche cose indosso. Pettine, passamontagna e berretto, quel bossolo trasformato in penna stilografica — esempio di «arte da trincea» —, scarponi con dentro pelle di coniglio e paglia per renderli più caldi. E soprattutto quella specie di «palla» di carta in cui si erano appiccicati cartoline e affranchi postali.
Nicolis e il suo team di «detective del passato», a cui si sono aggiunti gli esperti trentini dei Beni librari, hanno letteralmente liofilizzato la poltiglia, asciugandola. Ed ecco spuntare l’identità del soldato in grigioverde «che ho potuto guardare davvero negli occhi» è il ricordo ancora nitido del professore. L’elemento meglio conservato era una ricevuta di spedizione ferroviaria datata 19 novembre 1915. Compariva il timbro di un ufficio postale di Milano, era il papà di Rodolfo che aveva mandato al figlio un pacco con degli indumenti invernali. Nome, cognome, destinatario, reggimento.
Il resto lo ha fatto Onorcaduti (il monumentale «database» della Difesa che raccoglie i dati sui nostri caduti). Si è scoperto che Rodolfo, morto a 30 anni, era stato richiamato dopo un precedente periodo di leva. Dopo la valanga gli alpini preferirono lasciarlo nel crepaccio, divenuto, come in un racconto buzzatiano, la sua tomba. «Di lui sappiano soltanto che era fidanzato», racconta ora Maria Rosa Terruzzi, 67 anni, lontana pronipote dell’alpino le cui spoglie «torneranno a Besana», annuncia commosso il sindaco Carlo Cazzaniga. Una cerimonia prevista il prossimo 4 novembre.