Tedua: «Il mio rap di periferia»
Sold out al Fabrique per il freestyler che ha dedicato il nuovo disco a Mowgli
Si sente come Mowgli, il bambino accudito dai lupi prima di entrare nel mondo degli uomini. Mario Molinari, in arte Tedua, il rapper cresciuto tra la periferia di Genova e quella di Milano, ha intitolato il suo nuovo disco come il cucciolo umano creato da Kipling, perché la sua è una storia di una preda che diventa predatore nell’ostile selva metropolitana. «Da piccolo ho letto il romanzo e mi è rimasto dentro», spiega Tedua, «così ho utilizzato Mowgli per definire una metafora dell’hip hop che vede la città come una giungla urbana, ma anche della mia infanzia difficile, di un bambino cresciuto da solo, tra abbandoni e affidi, che cerca il suo branco per sopravvivere». Ora Tedua ha più di 600 mila follower su Instagram, i suoi brani, come «La legge del più forte», hanno più di sette milioni di visualizzazioni su YouTube, e il suo concerto di stasera al Fabrique (via Fantoli 9, ore 21), dove è accompagnato da Chris Nolan, è tutto esaurito. Il suo riscatto è riuscito grazie al rap, ma prima ancora con il pugilato. «Il ring è una scuola di vita, la boxe è un’arte nobile che insegna un’etica spesso assente nella strada». La sua palestra artistica è stato invece il quartiere di Lotto, dove in prima media partecipa alle jam insieme ad altri futuri rapper di successo come Ghali, Ernia e Fedez. «In quelle gare di freestyle», ricorda il rapper, «ero molto rispettato e lì ho trovato il mio flow, raccontando in rima tutto ciò che ho vissuto sulla mia pelle». Difficile inquadrarlo in uno schema, perché Tedua alterna il rap classico con la trap, e i suoi versi nascono da un flusso di coscienza, «perché ci vuole una coscienza sia per fare il cantautore, sia per fare il rapper», dice Tedua, «il mio flusso di pensieri lo uso come forma di psicanalisi». Nato a Genova nel 1994, è approdato dopo le scuole in una casa popolare a Calvairate, insieme al suo amico Rkomi, che collabora con lui nel disco «Orange County California»: «in quel caso mi sono identificato in Ryan Atwood, il bad boy di “The O.C.”, che viene affidato a una famiglia benestante e piena di valori».