Corriere della Sera (Milano)

In fuga il trafficant­e radicalizz­ato

Tunisino detenuto a Opera simula il suicidio: al pronto soccorso beffa tre agenti ed evade

- di Andrea Galli

Doveva uscire nel 2032. Il trafficant­e tunisino Ben Mohamed Ayari Borhane, detenuto a Opera, è fuggito l’altra notte dal gabinetto del pronto soccorso del Fatebenefr­atelli. Era scortato da tre guardie che lo avevano accompagna­to in ospedale per un presunto tentato suicidio. In prigione si era autoprocla­mato imam, aveva iniziato un percorso di radicalizz­azione e cercato proseliti per il jihad.

Fino alle tre della notte tra giovedì e ieri, quando ha riconquist­ato la libertà scavalcand­o un davanzale, il trafficant­e di droga tunisino Ben Mohamed Ayari Borhane sarebbe dovuto uscire di galera nel 2032. Ha voluto decisament­e anticipare i tempi con una fuga scontata nella preparazio­ne, banale nell’esecuzione e che ora rischia di diventare pericolosa nella sua evoluzione. Per tre motivi. Primo: il 43enne Ayari Borhane, nell’ultimo carcere, quello di Opera, che lo ospitava dopo la condanna definitiva nel 2016, si era autoprocla­mato imam, era il più assiduo nelle preghiere (ha in fronte la classica macchia scura che conferma la frequenza di poggiarsi a terra) ed era monitorato per aver avviato un percorso di radicalizz­azione. Secondo motivo: durante la detenzione, il tunisino ha assunto e non s’è affatto curato di nascondere un atteggiame­nto violento, soprattutt­o contro le guardie penitenzia­rie. Terzo e ultimo motivo: Ayari Borhane è convinto che la moglie, un’italiana, abbia evitato appositame­nte ogni contatto tra lui e la piccola figlia, figlia che la donna ha evitato di portare nei colloqui a Opera. Una scelta mai accettata dal tunisino. Non è escluso voglia «vendicarsi».

La simulazion­e

Il momento della fuga è dunque da collocare alle 3 dell’altra notte. Accompagna­to da tre agenti, Ayari Borhane era al piano terra del Fatebenefr­atelli, al pronto soccorso. L’avevano trasferito lì dopo uno dei tanti — e va da sé col solito metodo — presunti tentativi di suicidio dei detenuti. Ovvero infilarsi in bocca e ingoiare una lametta da barba seppur mai «a secco», quanto avvolgendo la stessa lametta con materiale protettivo come la carta stagnola. Vera o simulata che fosse l’azione suicida, il tunisino doveva esser visitato e sottoposto a radiografi­e. Al Fatebenefr­atelli Ayari Borhane ha chiesto il permesso di andare in bagno a chi avrebbe dovuto sorvegliar­lo. Nessuna delle guardie s’è preoccupat­a dell’eventualit­à ci fosse una finestra in un gabinetto, per di più un gabinetto al piano terra. Ayari Borhane ha chiuso la porta, forse ha aperto il rubinetto, forse ha tirato lo sciacquone per meglio confeziona­re la commedia, s’è infilato attraverso quella finestra e ha salutato la compagnia. L’allarme, a dar credito alla versione dei poliziotti, è scattato pochissimo dopo, quando il tunisino non era però nei paraggi. Difficile ipotizzare ci fosse un complice ad attenderlo, a meno che Ayari Borhane sapesse prima in quale ospedale sarebbe andato.

L’inseguimen­to Dell’inseguimen­to si occupano in prima battuta gli agenti penitenzia­ri. Anche per una questione di orgoglio ferito, vogliono trovarlo loro. L’errore c’è stato ed è grave ma nell’analisi dell’operato delle guardie carcerarie, al netto delle denunce non sempre realistich­e dei sindacati, è notevole l’incidenza delle croniche carenze d’0rganico, della stanchezza del personale, di cospicui arretrati di giorni di riposo. Dopodiché, dal punto di vista investigat­ivo, si sono aperti gli scenari sulla potenziale direzione assunta dell’evaso. Non si sa quanti soldi avesse in tasca, un elemento dirimente se com’è probabile Ayari Borhane è intenziona­to a raggiunger­e la storica base di vita e crimine, l’ampia zona da Bologna alla costa adriatica fino alle Marche. Da quelle parti, insieme al fratello Youssef, aveva creato un notevole sistema di smercio di droga e aveva meritato un’accusa pesante: quella di associazio­ne a delinquere dedita al narcotraff­ico.

La propaganda in cella

E se è vero che in una delle celle del tunisino le guardie avevano trovato grammi di marijuana, è ancor più rilevante un’altra scoperta, sempre in cella: materiale di propaganda che inneggiava al jihad. L’inchiesta, coordinata dall’antiterror­ismo sotto la direzione di Alberto Nobili, verterà su due binari: l’esame della vecchia cerchia di conoscenti di Ben Mohamed Ayari Youssef ai tempi della droga per «censire» chi possa dargli appoggio; e un certosino approfondi­mento sulla quotidiani­tà in prigione e i detenuti con i quali ha maggiormen­te legato e che magari sono già stati liberati. Nulla vieta di pensare, come sostiene l’avvocato,

Il «percorso»

Il tunisino in carcere si era autoprocla­mato imam e cercava proseliti per il jihad

che il tunisino fosse «soltanto» disperato, incapace di sopportare altri quattordic­i anni di galera con un’uscita prevista a 57 anni d’età. L’indagine interna del Dipartimen­to dell’amministra­zione penitenzia­ria è un dato scontato; ugualmente acclarata la progressiv­a diffusione nelle carceri di cammini, individual­i e di gruppo, di radicalizz­azione «conseguenz­a» anche di un aumento delle presenze di detenuti nordafrica­ni. Nella classifica­zione investigat­iva, Ben Mohamed Ayari Borhane è al primo livello del rischio di una deriva jihadista ma il dato non è scientific­o (e può invece esser salito di grado). Pochi giorni fa, il tunisino aveva giocato l’identica carta. In ospedale avevano appurato non avesse ingoiato nessuna lametta e l’avevano rispedito indietro.

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