In fuga il trafficante radicalizzato
Tunisino detenuto a Opera simula il suicidio: al pronto soccorso beffa tre agenti ed evade
Doveva uscire nel 2032. Il trafficante tunisino Ben Mohamed Ayari Borhane, detenuto a Opera, è fuggito l’altra notte dal gabinetto del pronto soccorso del Fatebenefratelli. Era scortato da tre guardie che lo avevano accompagnato in ospedale per un presunto tentato suicidio. In prigione si era autoproclamato imam, aveva iniziato un percorso di radicalizzazione e cercato proseliti per il jihad.
Fino alle tre della notte tra giovedì e ieri, quando ha riconquistato la libertà scavalcando un davanzale, il trafficante di droga tunisino Ben Mohamed Ayari Borhane sarebbe dovuto uscire di galera nel 2032. Ha voluto decisamente anticipare i tempi con una fuga scontata nella preparazione, banale nell’esecuzione e che ora rischia di diventare pericolosa nella sua evoluzione. Per tre motivi. Primo: il 43enne Ayari Borhane, nell’ultimo carcere, quello di Opera, che lo ospitava dopo la condanna definitiva nel 2016, si era autoproclamato imam, era il più assiduo nelle preghiere (ha in fronte la classica macchia scura che conferma la frequenza di poggiarsi a terra) ed era monitorato per aver avviato un percorso di radicalizzazione. Secondo motivo: durante la detenzione, il tunisino ha assunto e non s’è affatto curato di nascondere un atteggiamento violento, soprattutto contro le guardie penitenziarie. Terzo e ultimo motivo: Ayari Borhane è convinto che la moglie, un’italiana, abbia evitato appositamente ogni contatto tra lui e la piccola figlia, figlia che la donna ha evitato di portare nei colloqui a Opera. Una scelta mai accettata dal tunisino. Non è escluso voglia «vendicarsi».
La simulazione
Il momento della fuga è dunque da collocare alle 3 dell’altra notte. Accompagnato da tre agenti, Ayari Borhane era al piano terra del Fatebenefratelli, al pronto soccorso. L’avevano trasferito lì dopo uno dei tanti — e va da sé col solito metodo — presunti tentativi di suicidio dei detenuti. Ovvero infilarsi in bocca e ingoiare una lametta da barba seppur mai «a secco», quanto avvolgendo la stessa lametta con materiale protettivo come la carta stagnola. Vera o simulata che fosse l’azione suicida, il tunisino doveva esser visitato e sottoposto a radiografie. Al Fatebenefratelli Ayari Borhane ha chiesto il permesso di andare in bagno a chi avrebbe dovuto sorvegliarlo. Nessuna delle guardie s’è preoccupata dell’eventualità ci fosse una finestra in un gabinetto, per di più un gabinetto al piano terra. Ayari Borhane ha chiuso la porta, forse ha aperto il rubinetto, forse ha tirato lo sciacquone per meglio confezionare la commedia, s’è infilato attraverso quella finestra e ha salutato la compagnia. L’allarme, a dar credito alla versione dei poliziotti, è scattato pochissimo dopo, quando il tunisino non era però nei paraggi. Difficile ipotizzare ci fosse un complice ad attenderlo, a meno che Ayari Borhane sapesse prima in quale ospedale sarebbe andato.
L’inseguimento Dell’inseguimento si occupano in prima battuta gli agenti penitenziari. Anche per una questione di orgoglio ferito, vogliono trovarlo loro. L’errore c’è stato ed è grave ma nell’analisi dell’operato delle guardie carcerarie, al netto delle denunce non sempre realistiche dei sindacati, è notevole l’incidenza delle croniche carenze d’0rganico, della stanchezza del personale, di cospicui arretrati di giorni di riposo. Dopodiché, dal punto di vista investigativo, si sono aperti gli scenari sulla potenziale direzione assunta dell’evaso. Non si sa quanti soldi avesse in tasca, un elemento dirimente se com’è probabile Ayari Borhane è intenzionato a raggiungere la storica base di vita e crimine, l’ampia zona da Bologna alla costa adriatica fino alle Marche. Da quelle parti, insieme al fratello Youssef, aveva creato un notevole sistema di smercio di droga e aveva meritato un’accusa pesante: quella di associazione a delinquere dedita al narcotraffico.
La propaganda in cella
E se è vero che in una delle celle del tunisino le guardie avevano trovato grammi di marijuana, è ancor più rilevante un’altra scoperta, sempre in cella: materiale di propaganda che inneggiava al jihad. L’inchiesta, coordinata dall’antiterrorismo sotto la direzione di Alberto Nobili, verterà su due binari: l’esame della vecchia cerchia di conoscenti di Ben Mohamed Ayari Youssef ai tempi della droga per «censire» chi possa dargli appoggio; e un certosino approfondimento sulla quotidianità in prigione e i detenuti con i quali ha maggiormente legato e che magari sono già stati liberati. Nulla vieta di pensare, come sostiene l’avvocato,
Il «percorso»
Il tunisino in carcere si era autoproclamato imam e cercava proseliti per il jihad
che il tunisino fosse «soltanto» disperato, incapace di sopportare altri quattordici anni di galera con un’uscita prevista a 57 anni d’età. L’indagine interna del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria è un dato scontato; ugualmente acclarata la progressiva diffusione nelle carceri di cammini, individuali e di gruppo, di radicalizzazione «conseguenza» anche di un aumento delle presenze di detenuti nordafricani. Nella classificazione investigativa, Ben Mohamed Ayari Borhane è al primo livello del rischio di una deriva jihadista ma il dato non è scientifico (e può invece esser salito di grado). Pochi giorni fa, il tunisino aveva giocato l’identica carta. In ospedale avevano appurato non avesse ingoiato nessuna lametta e l’avevano rispedito indietro.