La Triennale è casa
Fabio Novembre entra a passo spedito dentro la Triennale. Allegro, divertito, l’emblema dell’architetto che rientra a casa. A pianterreno, sulla destra, c’è la retrospettiva di Osvaldo Borsani, qualcosa attira la sua attenzione e si ferma di colpo. «Hanno aperto tutto, si vede parte dell’emiciclo, fantastico», osserva indicando lo spazio espositivo, «è cambiata la luce, la prospettiva, che meraviglia». E subito lascia cadere: «Stefano (Boeri,
ndr)
è un ottimo presidente». La Triennale è il luogo del cuore scelto da Novembre, il rifugio dove scappare appena Milano si ritrova avvolta nella bolla calda e umida estiva (lui, però, precisa: «Scappare? Sono originario di Lecce, adoro il clima torrido, è il freddo piuttosto a inibirmi»). In giardino, acciambellato su una delle poltrone di bronzo di Gaetano Pesce (li chiama tutti per nome, «va bene se mi metto lì, su Le Signore di Gaetano?», ha chiesto al fotografo), dichiara senza pudore il suo grande amore per la Triennale. «La Triennale è la casa del progetto, è chiaro che la senta così vicina», dice. Parte il film dei ricordi. «Ero sempre qui già da studente, annusavo, respiravo l’atmosfera», racconta, «qui ho allestito la mia monografica “Nel Fiore di Novembre”, nel 2009, e sono ritornato per la XXI Esposizione Internazionale».
Consigli per i milanesi distratti, che non si sono ancora avventurati oltre l’ingresso? «Non c’è un luogo particolare da vedere, la Triennale è come un labirinto da girare, scoprire pezzo per pezzo, percorrere fino in alto». Alza lo sguardo, nota la terrazza del ristorante. «Ho partecipato al concorso”, rivela. Risata, «non ho vinto». Spiega il suo progetto. «C’era un rimando formale ai Bagni Misteriosi di De Chirico, che adoro, il resto era una sorta di vessillo, là in alto ma molto visibile, non riesco mai ad abbassare i toni, ad essere mimetico». Si alza, cammina verso Il teatro dei Burattini di Alessandro e Francesco Mendini. «Sono legato a queste presenze artistiche, a questo giardino ospitale, se poi si sconfina nel parco ci sono Burri e Arman, un continuum filologico».
Trattiene uno sbadiglio, si scusa. Colpa del jet-leg, è appena rientrato da New York, primi preparativi per una mostra. La città americana lo ha entusiasmato, come sempre, «è la metropoli dei contrasti, delle mescolanze, il famoso melting pot kennedyano, qui è tutto più omogeneo». Non vuole essere frainteso, «qui mi piace», dichiara pronto. «Godiamoci l’onda lunga di Expo, i cantieri, il fermento culturale. Beppe (il sindaco,
ndr) è un regalo, guarda oltre il presente, ragiona su tempi lunghi». Continua parlando di scali ferroviari («la nuova scommessa»), di verde («Milano città-giardino è il mio slogan»), traffico («non ho avuto l’auto per venti anni, neppure quando le bambine erano piccole, usavamo il car sharing, facciamo sapere che il nostro modello di sharing è studiato e copiato»). Sta uscendo dalla Triennale, torna indietro. Sorride mentre svela progetti futuri. «Ho disegnato tutti i cucchiai possibili, ora vorrei aumentare la scala, torno all’architettura urbana». Milano? «Non subito. Vedo più possibili Cina e Emirati Arabi».
Atmosfera
Ero sempre qui anche da studente: è un luogo pieno di presenze artistiche