La caccia alla volpe entrò a Chinatown
L’indagine internazionale su Yang Xiuzhu, tra tangenti e dollari: un intrigo misterioso
Una caccia alla «volpe» tra la Cina, l’Italia, l’Olanda, fino agli Stati Uniti. La «volpe», Yang Xiuzhu, ex vicesindaco di Wenzhou, è stata al centro di un intrigo internazionale che — dal 2005 a un paio di anni fa — ha coinvolto Milano, città che da sempre protegge un lato oscuro, poco conosciuto. Yang era il simbolo della corruzione immobiliare di Pechino.
Il lungo sentiero di fuga ha portato la «volpe» tra Milano e Monza. Qui l’hanno cercata gli informatori di Pechino, quasi in gara con i servizi di sicurezza italiani decisi a scovare la «preda». Una caccia svoltasi attorno al 2005 e che si è poi conclusa, un paio d’anni fa, con un epilogo morbido a migliaia di chilometri di distanza, negli Usa. Atto finale di un intrigo internazionale che ha coinvolto la nostra città, che da sempre protegge un lato oscuro, poco conosciuto.
E allora torniamo indietro, al passato, svelando chi è la «volpe»: Yang Xiuzhu, ex vicesindaco di Wenzhou, metropoli di 3 milioni di abitanti nello Zhejiang, e prima ancora dirigente di un dipartimento coinvolto nelle costruzioni. È usando la sua carica che la funzionaria si mette in tasca bustarelle su bustarelle, un giro di milioni di dollari. Avrebbe continuato per molto se le autorità non avessero aperto, nel 2003, un’indagine sul fratello. Yang lascia il paese per iniziare una lunga latitanza inseguita dalla magistratura. La donna raggiunge Hong Kong, quindi Singapore, infine l’approdo in Europa. Eccola da qualche parte in Francia, poi il trasferimento in Italia.
I cinesi la braccano, la vogliono in galera a tutti costi, deve pagare per le sue ruberie. Yang diventa un simbolo delle «mani pulite» di Pechino, il suo nome è al primo posto di una lunga lista di ricercati nella campagna «Caccia alla volpe». Arrivano molte segnalazioni, la ex vice sindaco si muoverebbe tra la regione di Prato, l’enclave orientale fitta di imprese o laboratori, e la Lombardia. Un nostro investigatore — lo chiameremo Sergio — entra nell’inchiesta e parte da un filo iniziale nella Chinatown milanese. Chiede, bussa a porte, sollecita collaborazione. È convinto che la fuggiasca sia venuta in città perché ha appoggi da parte di connazionali originari di Wenzhou. La laboriosa comunità può essere uno schermo più o meno consapevole, una cortina di bambù efficace per proteggere le sue mosse. Inoltre la fuggitiva ha molto denaro, può comprare il silenzio e nel frattempo gestisce il suo enorme patrimonio, con immobili persino a Manhattan.
Sergio incontra una fonte che lo invita a guardare poco più a nord, nei dintorni di Monza, dove muove un personaggio influente, con legami nella madrepatria. A quel tempo — e forse anche oggi — le colonie cinesi all’estero hanno referenti nell’esercito oppure nel partito, non si esce da questo schema.
L’investigatore italiano arriva così ad un ristorante, completamente vuoto di clienti. Se c’erano sono stati invitati ad andare via o a ripassare più tardi. Davanti a lui l’interlocutore. Saluti, convenevoli, parole di avvicinamento prima di arrivare al sodo: Sergio vuole un aiuto per trovare Yang, promette una soluzione soft, sottolinea che è meglio per lei finire in una prigione italiana. L’uomo seduto dall’altra parte del tavolo replica: «Se vediamo... Se sentiamo». Non prende impegni, è sulla difensiva, probabilmente deve consultare qualcuno. L’inchiesta continua accompagnata da voci — non è escluso che la latitante si sia sottoposta alla plastica facciale — e dalle pressioni di Pechino sull’Italia. Trascorrono le settimane, le tracce sono ormai fredde. Yang, dopo alcuni mesi, ha capito che doveva lasciare il rifugio italiano. La tappa successiva è l’Olanda, dove lei pensa di essere al sicuro. Invece l’arrestano, ma riesce comunque a scappare ancora e nel 2014 approda in Canada. La chiusura non è lontana. Yang prova ad entrare negli Usa con un documento falso, è smascherata. Il suo caso si trasforma in un negoziato pubblico e segreto CinaStati Uniti, diventa una moneta di scambio di giochi ancora più grandi. Malata, stanca di nascondersi, afferma di voler rientrare in Cina, una mossa in apparenza spontanea: nel novembre 2016 atterra in manette a Pechino, evento trasmesso in diretta dalla tv nazionale. Le faranno lanciare un appello ai corrotti ancora all’estero: «Consegnatevi il prima possibile». Un anno dopo la condannano a otto anni.
Il governo, chiuso il suo fascicolo, pensa agli altri most wanted. La lotta alla corruzione ha ispirato i primi anni dell’era Xi Jinping. «Caccerò le tigri e schiaccerò le mosche», ha giurato il presidente riferendosi ai pezzi grossi e ai piccoli travet della pubblica amministrazione. La Commissione Centrale di Disciplina del Partito ha ricevuto l’incarico di fare pulizia. Più di un milione e mezzo di corrotti sono stati puniti in patria.
Ma la caccia si è estesa nel mondo, perché si calcola che tra il 2005 e il 2011 i capitali usciti illegalmente dalla Cina ammontino a 2,8 trilioni di dollari. Dopo l’operazione «Caccia alla volpe» è scattata la seconda, ancora in corso, «Tianwang», la «Rete del Cielo». In due anni ha portato all’arresto di 1.915 fuggiaschi all’estero con la collaborazione delle polizie locali di oltre 60 Paesi, compresa quella italiana, e al recupero di un miliardo in euro. Una storia mai finita.
I contatti Il detective arriva in un ristorante vuoto L’interlocutore è vago, la pista si raffredda
Latitanza La fuga di Yang Xiuzhu attraverso l’Europa è durata più di 10 anni Il negoziato Cina-Usa