Byrne agli Arcimboldi con lo show dei sogni
Arcimboldi Il fondatore dei Talking Heads in concerto con un ensemble di 12 elementi
«Lo show più ambizioso che abbia mai proposto dai tempi delle riprese per “Stop Making Sense”». Così David Byrne ha definito il live che sta portando in giro per il mondo. E se si pensa che «Stop Making Sense» è il film-concerto dei Talking Heads che il regista Jonathan Demme diresse nel 1984, si può comprendere il valore che l’artista scozzese-americano conferisce al tour che stasera farà tappa agli Arcimboldi. «In molti Paesi il mio pubblico è misteriosamente cresciuto, il che mi ha consentito di avere più soldi per me, per mettere a punto lo spettacolo dei miei sogni», spiega oggi Byrne, affiancato sul palco da un ensemble di 12 elementi che, suonando con gli strumenti al collo — in abiti eleganti, ma a piedi nudi —, ballano secondo una coreografia collettiva. La batteria è rimpiazzata da percussioni in movimento, non sono previsti cavi, tutto è progettato per dar vita a uno show che, rubando elementi dal teatrodanza e dalle bande musicali, trasmetta un senso di libertà. «C’è molta tecnologia — microfoni wireless, tracciamento a infrarossi —, ma è invisibile al pubblico», continua. «E non guida o plasma le idee, è solo un mezzo al servizio di queste ultime».
La scaletta pesca sia dal passato che dal presente: «Psycho Killer», l’hit con cui i Talking Heads esplosero nel 1977, non pare contemplata; in compenso non mancano classici del gruppo quali «Burning Down The House» e «Once In A Lifetime». E ampio spazio è garantito al nuovo disco solista di Byrne, «American Utopia»: un album realizzato con la complicità di Brian Eno, in cui sonorità funk e new wave, soluzioni elettroniche dissonanti e suggestioni esotiche si fondono con aperture melodiche contagiose. In una parola, pop nel senso più raffinato del termine. Ma che cos’è il pop per David Byrne? «Musica accessibile, accogliente», risponde. «Una canzone non è pop perché è un successo commerciale o aderisce a una formula, lo è se è scritta in modo da poter essere apprezzata da chiunque». E qui il 66enne si lancia in un elenco di brani, accostando senza snobismo pezzi distanti tra loro come «Can’t Feel My Face» di The Weeknd, «I Promise» dei Radiohead, «Only God Knows» degli Young Fathers, «Liability» di Lorde, «Tessellate» degli Alt-J. L’attitudine è quella del maestro poliedrico che in oltre 40 anni di carriera ha saputo dividersi tra musica, arte, scrittura, design, fotografia, senza chiusure intellettualistiche, ma immergendosi di continuo nello Zeitgeist, nello spirito dei tempi, e nutrendo un infinito bisogno di comunicazione, come dimostra il suo blog su Davidbyrne.com, aggiornato e ricco di spunti. «Sin da ragazzo ho lavorato per sottrazione, allontanando costantemente ciò che non consideravo genuino», osserva. E parlando dell’alienazione provocata dalla società di massa al centro di «American Utopia» invita a una riflessione che non si riduca a mera lamentela. «In quest’epoca i giovani non credono più nella meritocrazia né che i loro figli possano avere una vita migliore della loro. Il sogno è finito, tutto è volatile, ma a che serve crogiolarsi nella rabbia? Io cerco e offro, mostro e creo alternative».
Successi
Una canzone è pop quando è scritta in modo da poter essere apprezzata da chiunque