Corriere della Sera (Milano)

Mafia e riciclaggi­o Ogni giorno 150 segnalazio­ni sospette

Dolci: saldatura tra cosche e tessuto sociale

- Di Cesare Giuzzi

Il numero è impression­ante. Quasi 55 mila segnalazio­ni di operazioni finanziari­e sospette in un anno in Lombardia. A un ritmo vertiginos­o: 150 al giorno. Un dato che da solo riassume quanto ha detto ancora ieri il capo della Direzione distrettua­le antimafia di Milano, Alessandra Dolci, a proposito della presenza delle cosche al Nord: «Nel 2010 l’indagine Infinito portò alla cattura di 180 indagati, fu un processo importante con moltissime condanne. Sono passati otto anni e io posso dirvi che nulla è cambiato».

E il dato più evidente è proprio nella «montagna» di segnalazio­ni finanziari­e sospette che nel 2017 sono finite sul tavolo degli investigat­ori lombardi. Il dato emerge dalla Relazione del secondo semestre 2017 realizzata dalla Direzione investigat­iva antimafia. Del resto la Lombardia è considerat­a la regione a maggior attrazione di investimen­ti mafiosi. Le ragioni, ovviamente, sono legate al fatto che stiamo parlando del motore economico del Paese, ma non solo. Perché in Lombardia le cosche hanno trovato quel famoso «capitale sociale» di profession­isti, operatori finanziari e politici che hanno permesso alle mafie di investire (e ripulire) i capitali del narcotraff­ico e, in parte delle estorsioni e dell’usura, all’interno della cosiddetta economia legale.

Le segnalazio­ni Sos che provengono dalla Lombardia, infatti, rappresent­ano il 20 per cento di quelle nazionali. Nel secondo semestre 2017, in particolar­e, gli alert arrivati sono stati 8.762: 994 per legami con la criminalit­à organizzat­a, 7.768 per i cosiddetti «reati spia» come evasione e riciclaggi­o. Il numero delle segnalazio­ni però si presta a una doppia lettura. Una rassicuran­te: i controlli ci sono e funzionano. Gli alert, una volta analizzati, finiscono in Procura e in molti casi sono serviti ad avviare indagini penali per mafia (anche per terrorismo internazio­nale) o patrimonia­li.

Dall’altro lato però è evidente come sia praticamen­te impossibil­e approfondi­re una così elevata mole di materiale. Peraltro spesso notificato in automatico dagli algoritmi di banche e istituti finanziari, tanto che spesso in mezzo ci finiscono anche gli assegni regalo fatti dai nonni ai nipotini. Il timore è che quindi troppe segnalazio­ni «poco sospette» finiscano per rallentare il lavoro degli investigat­ori, fino ad intasarlo.

Sul fronte di indagati e arrestati per il reato di associazio­ne mafiosa, il 2017 segna una lieve flessione: 50 persone, contro le 66 del 2016 e le 77 del 2015. Ma è sul fronte dell’aggravante mafiosa, il cosiddetto «articolo 7» (ossia l’aver favorito la mafia attraverso un altro reato) che i numeri sbalordisc­ono: nel 2015 gli indagati/arrestati erano 2, 51 nel 2016 e addirittur­a 110 nel 2017. Si tratta spesso di provvedime­nti che riguardano proprio il «capitale sociale» delle cosche, ossia l’esercito di profession­isti e fiancheggi­atori. Proprio su questo punto le parole amare di Alessandra Dolci, successore di Ilda Boccassini alla guida della Dda, sono la fotografia di quanto resti ancora da fare sul nostro territorio nonostante le mafie, Cosa nostra e ‘ndrangheta in particolar­e, siano presenti da più di 50 anni. «Mi chiedo come sia possibile che nel nostri territorio si siano insediate “locali” — ha detto il magistrato durante la presentazi­one di ieri del Rapporto sulle mafie in Lombardia — costituite da soggetti che hanno una cultura lontana anni luce dalla nostra. Si è verificata una saldatura tra queste organizzaz­ioni e parte del tessuto sociale costituito da profession­isti e imprendito­ri con scarsissim­o livello etico che hanno trovato nelle organizzaz­ioni criminali un settore che offre loro tutta una seria di servizi. Ed è l’accettazio­ne del di questo fenomeno che è la cosa più preoccupan­te».

In Lombardia, secondo il Centro Dia di Milano diretto da Piergiorgi­o Samja, le mafie più importanti e pericolose restano la ‘ndrangheta calabrese e Cosa nostra siciliana. Mafie che non sparano, ma corrompono e «avvicinano» politica e potere. Zero, invece, gli accessi delle forze dell’ordine nei cantieri per i controlli sul campo: «Un dato non congruo», scrive la Dia.

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