Abbonato numero mille
Storia di Sergio Campari, 52 anni sulle tribune «Dal 1966 non mi perdo una partita di basket Da Bradley a Langford, una vita per l’Olimpia»
Forse non è un caso che tra tante giocate da incorniciare viste dal vivo in 52 anni di tribune, quella più amata dal meccanico Sergio Campari sia quella più vicina alla sua indole operaia. Quella più casciavìt, con le mani sporche di grasso.
Gara-5 della finale scudetto tra Enichem Livorno e Philips Milano, maggio del 1989. Una delle partite da leggenda della pallacanestro italiana, finita con un verdetto da Var ante litteram: canestro decisivo di Livorno annullato dopo la sirena, a vittoria toscana già annunciata dai telegiornali, e i tifosi milanesi con il respiro sospeso. Negli occhi di Sergio ancora si legge l’ammirazione. «Vedere un campione così importante come Bob McAdoo, tuffarsi in quel modo per recuperare un pallone e vincere è stato il momento più emozionante della mia vita da tifoso dell’Olimpia».
Decenni senza perdersi un match, fin dalla prima trasferta del 1966, patente appena presa, 500 gialla fiammante fresca di concessionaria. A lui — all’epoca neppure trentenne, unico uomo di famiglia, da quando il papà muratore era morto nel 1959, lasciando al suo stipendio da officina il sostentamento della madre e delle sei sorelle, tutte maggiori — quel tuffo di McAdoo, in un istante, dev’essergli parso la sintesi di tutte le fatiche, il tempo e i sacrifici («Ne ha parlato per mesi...» ci scherzano in famiglia). «A 14 anni giravo per Milano sul tram con la borsa degli attrezzi e la schiscetta. Allora di lavoro ce n’era, mica come oggi». Rettifiche, torni, frese. Da Vimodrone a Crescenzago, da Affori a piazzale Lodi. Fino all’officina Bersani di San Donato, dov’è rimasto per 50 anni, dal picco di 37 dipendenti («19 donne e 18 uomini» ricorda) fino agli ultimi tempi («quando ormai eravamo soltanto in cinque»). Nato a Inzago nel 1937, un solo anno dopo la sua amata Olimpia, poi trasferitosi a Truccazzano (tranquillo comune oltre la Rivoltana), Sergio prima del basket amava la corsa, «Facevo le 10 km e le campestri». Poi quel 1966, l’Eurolega vinta grazie all’ala Bill Bradley, altro campione indimenticato: «Studiava in Inghilterra e veniva a giocare con noi solo la coppa al giovedì» (tornato in Usa, i Knicks ritirarono la sua maglia, la 24, e lui raggiunse pure un seggio al Senato).
Il tuffo di McAdoo è rimasto scolpito nella storia delle Scarpette rosse. Così come la militanza del Campari, habitué biancorosso, entrato in confidenza con il padre di Riccardo Pittis («Mi portava nel parterre con lui»). Tanto da far intervenire il fato. E la società, al momento di premiare l’abbonato numero mille della stagione, si è trovata davanti un veterano doc: Sergio con il figlio Fabio, a sua volta da 40 anni con il padre sulle orme della Milano del basket. «Dovrebbero regalare un bel tailleur di Armani anche a noi, di quelli che si vedono in Galleria» sorridono tra il serio e il faceto la moglie Innocenta e la nuora Donata, spesso al seguito sugli spalti («finché gli 84 gradini non sono diventati troppi», dice donna Innocenta). Per Armani, solo belle parole («Un si- gnore» dice Campari), ricordando aneddoti su altri presidenti: «Accompagnai Gabetti a Torino con la 127, a fine anni 80, aveva paura della nebbia». Anni tra i palazzetti, dal Palalido («alle 17 mi lavavo le mani in officina, passavo a prendere la famiglia e alle 18.05 ero lì») al Palatrussardi al Forum, incluso quello dello sport, il cui tetto crollò nel 1985 sotto il peso della grande nevicata. Bradley, McAdoo, Joe Barry Carrol, Mike D’Antoni, ma anche Langford in tempi più recenti e Goudelock, appena partito. «Non è cambiato nulla nel basket, la passione è immutata. Certo una volta avevano i pantaloncini corti corti e si muovevano al rallentatore, ma è l’evoluzione di tutto. Si va sempre più veloci».
Il tuffo di McAdoo «Quel recupero nell’89 a Livorno mi emoziona ancora. Aveva grande voglia di vincere»
Come nei viaggi verso Pesaro, Cantù, Roma, il freddo di Losanna (vittoria europea nel 1987 contro il Maccabi), eccetera. Partenza ai Tre Ponti con gli amici, i «bianchini», le notti al volante sulla via di casa. Quante vittorie. Ma anche sconfitte. Ancora gli bruciano quelle contro la Siena di Minucci (gli scudetti revocati). «Non ci fischiavano niente!». Dall’altra stanza interviene Innocenta, in milaness:«Ocio, così ti fai venire un infarto...».