I familiari deportati e il vitalizio negato
Ebrea milanese in lotta da 5 anni con la burocrazia per ottenere ciò che le spetta
Rachele Vered, 79 anni, da quasi 5 sta combattendo con il ministero dell’Economia che le nega il vitalizio riservato ai perseguitati politici per le leggi razziali. È nata a Milano da genitori ebrei fuggiti dalla Polonia, ma le mancherebbe la prova della cittadinanza italiana nel periodo delle persecuzioni perché l’impiegato dell’anagrafe nel campo con la cittadinanza scrisse «polacca».
Il 20 settembre 1939 l’anagrafe di Milano registrò la nascita di una bambina che i genitori chiamarono Rochla; gli uffici comunali aggiunsero il cognome del padre, Zjsia Waisbort, che aveva 35 anni e viveva in città con la moglie 27enne, Chana Borkowska. Erano scappati dalla Polonia. Erano ebrei: nei giorni in cui nacque a Milano la loro bambina, nel loro Paese era in corso la battaglia di Varsavia (8-28 settembre 1939), il combattimento chiave dell’occupazione nazista in Polonia. Oggi, 79 anni dopo, quella bambina è una signora di nome Rachele Vered e da 5 anni porta avanti una contesa amministrativa con il ministero dell’Economia, che le nega il riconoscimento riservato ai perseguitati per le leggi razziali.
È una storia che rimanda qualche eco al presente, non soltanto per un tema di memoria e diritti, ma perché ruota tutta intorno alla questione dello ius soli. La cittadinanza italiana nel periodo delle persecuzioni razziali (1938-1945), ha spiegato la commissione del ministero, è un requisito che la signora Vered non avrebbe, o quanto meno ne mancherebbe la prova. Perché l’impiegato dell’anagrafe milanese, nel 1939, al momento di compilare il campo con la cittadinanza dei genitori, scrisse «polacca». La storia, però, è molto più complessa. A riconoscere le ragioni della signora Vered (annullando il rifiuto della commissione) è stato il Tar del Lazio, che ha accertato, «pur se via incidentale», che il 20 settembre 1939 la piccola Rochla nacque invece cittadina italiana. I giudici hanno incrociato due leggi dell’epoca.
«La legge della Repubblica di Polonia del 31 marzo 1938 prevedeva che ai cittadini polacchi soggiornanti all’estero venisse revocata la cittadinanza qualora essi non fossero rientrati in Polonia “entro la data prestabilita, su richiesta della rappresentanza estera della Repubblica Polacca”».
La legge italiana del 1912 stabiliva inoltre che fosse cittadino italiano per nascita «chi è nato nel Regno se entrambi i genitori sono ignoti o non hanno la cittadinanza italiana, né quella di altro Stato». I giudici del Tar del Lazio hanno dunque fatto un ragionamento di buon senso: stando alla legge polacca, nel 1939 i genitori della signora Vered (poi deceduti in Israele) erano certamente «apolidi», e dunque la loro figlia nata a Milano acquisì la cittadinanza italiana.
A dimostrare che i genitori della donna siano rimasti in Italia (e dunque non possano essere in alcun caso rientrati in Polonia e aver conservato la cittadinanza polacca), in giudizio sono stati allegati gli atti più drammatici di questa storia: «Nel 1939 i genitori si trovavano con certezza a Milano, come attesta l’estratto di nascita della ricorrente — scrivono i giudici —, e la loro presenza dopo tale data (ad esempio, il 25 luglio 1940, il 14 luglio 1944 e il 5 settembre 1944) è stata accertata in alcuni campi di concentramento siti in Italia e destinati a cittadini di religione ebraica».
Il ministero ha fatto ricorso al Consiglio di Stato che, con una recente ordinanza, ha disposto che si provi a chiedere ancora alla Polonia, attraverso l’ambasciata, «documentati chiarimenti sulla perdita della cittadinanza polacca» da parte di quei due genitori che, a Milano, scelsero il nome Rochla per la loro bambina appena nata.