Sesto, la delibera del Comune bocciata dal Tar. Ora il Consiglio di Stato
Il minareto nella palude dei ricorsi: duello tra politica e libertà religiosa
Era scritto al primo punto del programma con cui il sindaco Roberto Di Stefano ha spodestato dopo 72 anni il centro sinistra a Sesto San Giovanni: «No alla grande moschea». E uno dei primi atti della giunta di centro destra è stato proprio quello dello stop alla realizzazione del Centro culturale islamico in via Luini, dopo il via libera ottenuto dalla precedente amministrazione a fine 2013. È partita così la guerra a colpi di carte bollate con i musulmani che fanno ricorso al Tar contro la decisione del Comune: il primo round davanti al tribunale amministrativo è finito ai promotori del Centro islamico. I giudici hanno bocciato la delibera del Comune, che ha sua volta ha fatto ricorso al Consiglio di Stato (ultimo grado della giustizia amministrativa) che dopo il rinvio del 26 luglio si pronuncerà sulla questione in autunno, al massimo a inizio 2019.
In gioco c’è l’avvio del cantiere per la realizzazione della moschea più grande d’Italia su un’area di 2,4 mila metri quadrati, in una città dove 5mila residenti sono di fede islamica, 700 dei quali cittadini italiani. Di Stefano appena insediato di fatto straccia la convenzione firmata nel 2013 con l’amministrazione precedente di centro sinistra, guidata dall’allora sindaco Monica Chittò del Pd. Prima con una diffida del 18 luglio, poi con una delibera del 9 ottobre scorso con cui dichiara decaduta la concessione del diritto di superficie, bocciando le richieste del Centro di uno slittamento del cronoprogramma. Alla base della decisione, prendeva atto l’amministrazione, il «mancato pagamento della somma di 320mila euro (il corrispettivo per l’uso del suolo per i prossimi 50 anni), oltre al mancato completamento della procedura di bonifica e dell’avvio della fase di realizzazione della struttura il cui inizio lavori che — in base al cronoprogramma — doveva partire dal mese di settembre 2016 e del mancato rispetto della diffida ad adempiere inviata a luglio».
Gli esponenti del Centro culturale islamico a luglio ricorrono immediatamente al Tar rappresentati dagli avvocato Carlo Cerami e Valentina Vavassori. Nella partita entra anche la città Metropolitana che a ottobre certifica che «l’intervento di bonifica è stato eseguito e completato con il raggiungimento degli obiettivi previsti dal progetto e autorizzato dal Comune di Sesto San Giovanni» nel 2013. Questioni tecniche dunque, giocate fin qui sul filo del diritto. Sul tavolo per lo slittamento del cronoprogramma poteva arrivare anche una sanzione pecuniaria, ma la giunta Di Stefano ha deciso di giocare forte per dare seguito alla campagna elettorale, rifacendosi anche legge regionale per i luoghi di culto introdotta nel 2015. Il sindaco più volte ha ribadito che «la moschea con me sindaco non verrà mai realizzata», prospettando addirittura un quesito referendario.
Per i giudici però l’atto con cui il comune ha disposto la decadenza del titolo per costruire la moschea è stata un modo per sanzionare «il ritardo nell’avvio dei lavori» che poteva essere però configurato come un «danno patrimoniale» per il mancato pagamento dei 320mila euro previsti dalla convenzione. Per i togati a prevalere sarebbe inoltre il principio della libertà di culto, più volte richiamato nel corso delle motivazioni delle sentenza. La disponibilità di luoghi dedicati alla preghiera, scrive il collegio della seconda sezione del Tar della Lombardia, «è condizione essenziale per l’effettivo esercizio» della libertà religiosa. Il comune di Sesto San Giovanni ha fatto così ricorso al Consiglio di Stato, mentre in via Luini continuano le attività della «moschea provvisoria», in attesa di una decisione che metta il punto alla situazione.
I fedeli
In via Luini continuano le attività del centro provvisorio in attesa di sentenza definitiva