Magritte tra realtà e visione Una mostra antologica a Lugano e un percorso immersivo
Niente è come sembra nelle opere dell’artista belga sedotto dalla metafisica Una grande mostra a Lugano
«Tutti questi discorsi che vengono ora alla luce mi portano a credere che la nostra felicità dipenda anche da un enigma legato all’uomo e che il nostro dovere sia quello di provare a conoscerlo». È il 20 novembre del 1938. Al Musée Royal des Beaux Arts di Anversa, René Magritte (18981967) conclude così la sua conferenza «La ligne de vie», una delle rare occasioni in cui ha raccontato di sé e del suo lavoro. Coerente con le proprie parole, l’artista belga non ha mai smesso di indagare sugli enigmi che l’esistenza nasconde. Certo ci sono le teorie freudiane a supportarlo, così come il sodalizio con i Surrealisti. C’è anche il retaggio di una vena visionaria che traversa la pittura fiamminga da Bosch in poi. Ma in lui esistono anche una vocazione innata alla ribellione, al desiderio di contraddire le regole, che lo spingono a cercare nell’espressione artistica effetti misteriosi e sconvolgenti. Oggi la conferenza di Anversa è stata ripresa come filo conduttore della rassegna antologica «Magritte. La ligne de vie» allestita fino al 6 gennaio al Masi di Lugano.
La mostra, curata da Xavier Canonne, Julie Waseige e Guido Comis con il sostegno della Fondazione Magritte di Bruxelles, ripercorre attraverso più di 90 opere tutta la carriera dell’artista, dagli esordi nei primi anni Venti fino ai capolavori degli anni Sessanta. Il visitatore scopre così che già da giovane l’artista manifesta il desiderio di allontanarsi dalle convenzioni e interpretare il mondo da nuovi punti di vista: ecco allora un primo momento tra Cubismo e Futurismo, movimento che il belga ammira definendolo «una sfida al buonsenso». Fondamentale però è l’incontro con la Metafisica, che conosce nel ‘24 sulle pagine di una rivista: non a caso in mostra sono accostati «Le plaisir du poète», 1912, di Giorgio De Chirico, e «La traversée difficile», 1926, di Magritte. Il linguaggio metafisico lo aiuta nella creazione di un vocabolario più intellettuale, distaccato, inquietante: quel gioco tra realtà e visione, coscienza e incoscienza, sostanza e apparenza che caratterizza il suo universo. Lo strumento chiave è lo spaesamento, ottenuto in primis attraverso la decontestualizzazione degli oggetti: ne «Le noctambule», 1928, l’ambiente domestico notturno, illuminato da un incongruo lampione da strada, si fa subito ingannevole e ambiguo. Ma per rendere insolito ciò che è comune Magritte usa anche altri metodi: accostare tra loro cose senza relazioni logiche, dar corpo a sogni o ricordi infantili, sconvolgere proporzioni e materiali, immettere parole arbitrarie. Così, dice, «gli oggetti diventano finalmente sensazionali», e nascono dipinti straordinari come «La mémoire», 1948, «Modèle rouge», 1953, «La chambre d’écoute», 1958, «La grande guerre», 1964. Tra borghesi in bombetta senza identità e amanti dalle teste velate, mele smisurate e paesaggi disorientanti, il rivoluzionario Magritte ci lascia nello smarrimento, ma ci apre anche possibilità inesplorate. Perché niente è ciò che sembra.