Il villaggio di pastori che porta al narcos
La raffineria in Albania e la rotta dell’eroina diretta a Milano: preso il superlatitante
Il punto di partenza è un villaggio di pastori sulle montagne albanesi. Lì la polizia ha scoperto una raffineria di eroina e sequestrato 150 chili di oppio per la lavorazione: le indagini hanno permesso di arrivare al superlatitante Liman Beu, 54enne appartenente a una nota famiglia che traffica cocaina tra Milano e l’Olanda. Anche l’eroina era destinata all’Italia e soprattutto al mercato cittadino.
Villaggio di pastori e contadini sulle montagne del Nordest albanese, a 1.300 chilometri di distanza da Milano, Has aiuta a capire la geografia della droga, che arriva spesso in Italia, la «porta» d’accesso al resto d’Europa, e soprattutto, come rivelano i vertici della Procura generale di Tirana, che arriva qui in città, per fermarsi ed esser distribuita. La storia di Has, che ospitava una raffineria di eroina, è legata a quella del 54enne Liman Beu detto «Mani» (il diminutivo del nome di battesimo), uno degli arresti eccellenti tra i 44 operati dalla polizia albanese. I nostri investigatori esperti di mafie balcaniche conoscono bene «Mani» per il suo passato di reati, la condanna, la latitanza e il wanted dell’Interpol, e perché, nel percorso delinquenziale, lui sintetizza la «professionalità» che ha assunto la criminalità dell’Est. Non più o non solo predoni selvaggi, ma manager del male; non più o non solo piccoli spacciatori, ma narcotrafficanti.
Sulla via dell’oppio
A conferma della sua «pesantezza», quest’operazione, arrivata a un primo traguardo nelle ultime ore ma ancora in evoluzione, è stata condotta in prima persona dal capo della polizia albanese Ardi Veliaj. In quella raffineria ricreata ad Has, sono stati trovati 150 chili di oppio che, estratto dal papavero e trattato, «genera» eroina. L’oppio proveniva dalla Turchia. La scelta del villaggio di Has ricalca un modus operandi dei clan albanesi, che comprano il silenzio di quelle comunità isolate e molto povere, posizionano sentinelle lungo le strade di avvicinamento, e scelgono case disabitate per trasformarle in laboratori, con la frequente presenza di chimici colombiani, pagati a peso d’oro come al calciomercato, che insegnano il processo lavorativo. Ne consegue che il metodo d’indagine somiglia a quello necessario per combattere la ’ndrangheta a casa sua, sull’Aspromonte: una paziente, ossessiva attività di «ascolto» del territorio.
Le quattro bande L’operazione della polizia ha disarticolato quattro bande. Una di questa aveva garantito ospitalità a «Mani», che s’era nascosto nel Sud del paese, a Fier, e che è stato stanato e catturato dalla locale questura diretta da Artur Selimaj. Arrivato da giovane in Italia e fermatosi tra Milano e Brescia (il cui Tribunale aveva emesso l’ultima condanna, quella definitiva e «decisiva» per spingerlo a scappare), Liman Beu appartiene a una «famiglia» che muove cocaina tra la stessa Milano e l’Olanda. «Mani» aveva cominciato con le rapine a mano armata; poi era entrato nello sfruttamento della prostituzione, inizialmente come «controllore» sulle strade e in seguito come «padrone» di ragazze; infine, aveva investito i soldi guadagnati nelle prime partite di droga. Il fatto che avesse addosso un mandato di cattura non gli aveva creato stress. È «abitudine» dei latitanti albanesi ricevere in tempo reale notizie, come appunto condanne e note di arresto che dovrebbero viaggiare protette ed esclusivamente su canali istituzionali, e organizzarsi un solido nascondiglio. Il denaro, a questi balordi, non manca mai, e col denaro si compra tutto, compresa la libertà.
Rotte e carichi
Altri elementi delle bande sono stati fermati a Scutari e Valona dalle questure guidate da Vasil Celaj e Alket Ahmetaj. Come Selimaj, sono dirigenti che è doveroso menzionare: rappresentano il nuovo corso della polizia albanese, quaranta-cinquantenni formatisi grazie alla cooperazione italiana che ha permesso una crescita del livello investigativo, anche se l’esperienza dei diretti protagonisti, già giovani agenti negli anni della guerra civile, vale un intero curriculum. Da Fier, «Mani» riusciva a gestire gli affari della droga e a conservare rotte, carichi e guadagni. La sua fine potrebbe produrre una guerra per occupare lo spazio. Ancora oggi, la «regola» delle cosche calabresi sovente alleate — non sparare ma restare sottotraccia — non è sempre «rispettata» dai clan albanesi. I sospetti che gli investigatori nutrivano su di lui, nati da alcune informazioni raccolte nel quartiere, hanno trovato conferma la mattina del 23 ottobre. Quel giorno, gli agenti hanno fatto scattare la perquisizione in casa. Un immobile senza impianto di riscaldamento, inserito in un contesto «molto degradato», come è stato definito. A.C., quando si è trovato gli agenti alla porta, ha rivelato che, da qualche giorno, si sentiva seguito («me lo aspettavo», avrebbe detto senza opporre alcuna resistenza). In suo possesso sono stati trovati (oltre alla droga, a un bilancino, e a tre telefoni cellulari) un micidiale fucile a pompa calibro 12, e una pistola semiautomatica 9x21, con una cinquantina di cartucce. Entrambi i pezzi provengono da furti commessi in abitazione. Il primo è stato sottratto a Paderno Dugnano, la seconda a Varese. Un ritrovamento che arricchisce le statistiche del commissariato nel 2018, assieme alla scoperta, effettuata nei mesi scorsi, di un fucile a canne mozze «murato» all’interno di un intercapedine di una casa di Baggio. E agli altri sequestri messo a segno in una cantina di uno stabile popolare di via Saint Bon, zona Forze Armate (tre pistole pronte all’uso, due delle quali con le cartucce inserite nel caricatore), e di un fucile trovato in un palazzo di Via Giambellino.
I traffici
L’uomo appartiene a un clan molto attivo sul fronte della cocaina tra la città e l’Olanda