Uno spettacolo e un nuovo libro per ricordare Antonia Pozzi a ottant’anni dalla sua morte
A ottant’anni dalla scomparsa uno spettacolo e una nuova raccolta celebrano la poetessa milanese morta suicida nei campi di Chiaravalle
La bicicletta, le scalate all’alba sulla Grigna, la biblioteca nella villa di famiglia a Pasturo, in Brianza, il liceo Manzoni, la pudica (e proibita) passione per il prof di greco. E ancora la «carissima» nonna Nena, il volontariato alla Casa degli sfrattati, l’insegnamento, la Statale, il legame con Dino Formaggio e Antonio Banfi, la fotografia. E sopra ogni cosa una eccelsa poesia «vissuta tutta dal di dentro». Viene da parlare dell’energia di Antonia Pozzi, della sua straordinaria «troppa vita che ho nel sangue», piuttosto che della morte — avvenuta il 3 dicembre 1938, esattamente ottant’anni fa. Antonia partì in bici da via Mascheroni e arrivò all’abbazia di Chiaravalle. Si stese sulla neve, ingerì la massiccia dose di barbiturici con cui aveva deciso di spegnersi e morì, ancora ragazza. Perché? Resta mistero, come ogni volta che la vita di un giovane si interrompe in modo volontario e così brusco. La famiglia alto borghese e in particolare il padre cercarono di coprire la vicenda offuscando l’esistenza di quella figlia in odore di scandalo. Ma non ci riuscirono del tutto perché gli amici conservarono gli scritti di Antonia. Da lì è iniziata (e non è ancora finita) la minuziosa opera di ricostruzione delle sue opere. Poesie asciutte e scatti fotografici per cui ora Antonia Pozzi è riconosciuta tra le voci più belle e alte e anticonformiste levatesi in pieno fascismo.
In punta di piedi, con discrezione e rispetto, l’attrice e drammaturga Elisabetta Vergani da tempo le studia, riordina, mette in scena. In occasione dell’ottantesimo anno dalla sua morte ha curato anche un libro, pubblicato da Salani. Si chiama «Desiderio di cose leggere», è una raccolta di versi, molti scritti da una Antonia ancora diciassettenne. Potrebbero piacere anche ai giovani e non è un caso che l’attrice lo dedichi a suo figlio adolescente. «Antonia si lasciava attraversare in modo dirompente dalle cose, dalla vita — racconta Vergani —. Eppure stava sempre sulla soglia, ribelle», in direttissimo — e persino rischioso — contatto con le emozioni. L’attrice stasera recita allo spazio Banterle il suo «L’infinita speranza di un ritorno», con la regia di Maurizio Schmidt sulle musiche di Filippo Fanò, produzione Farneto Teatro. E prima dello spettacolo la ricorda, sempre lì, con un convegno cui partecipano esponenti della cultura cittadina.
Anche due film in passato l’hanno omaggiata («Poesia che mi guardi» di Marina Spada e «Antonia» di Ferdinando Cito Filomarino). Le sue parole, del resto, scuotono. In una lettera a Formaggio, amore non corrisposto, scriveva ad esempio: «Siamo stufi di prepotenze, soprusi (…), della repressione barbara e retrograda di ogni voce umanitaria … Porci! Scusa se mi sfogo con te ma in casa non posso: mio padre fa ancora il benpensante e ha perduto il senso che domina invece noi giovani: quello della libertà di coscienza». È questa forse, la chiave per capire Antonia Pozzi, la sua indomita e sofferente passione. A lei piaceva rifugiarsi in alta montagna, ma anche mescolarsi alla gente semplice. Quella che adesso impara ad amarla.