QUELLE ALI FATTE DI PAROLE
Non è usuale fare l’elogio di Milano per parole dette e ascoltate. La città, a ragione, si vanta di porre l’operosità ai primi posti del proprio interesse, eppure nella sua storia ha udito, e in alcune componenti lanciato, grida di gioia, di contestazione, di eversione, di disperazione. Ha talvolta dibattuto sulle sguaiatezze di un marketing non solo economico ma anche sociale. Ora rialza la voce. Con un timbro controcorrente e abituale in chi, ed è la maggioranza, qui si adopera per una visione diversa del presente e, soprattutto, del futuro. Nel vociare confuso e nondimeno aggressivo che investe in questi tempi il Paese, tra le accuse, gli strilli e i rancori che dalla politica sbordano nella vita comune, Milano si inserisce con tonalità diversa. È nell’appuntamento più atteso per il suo risvolto politico e collettivo — il discorso alla città in occasione di Sant’Ambrogio — che il vescovo Delpini ha lanciato il provocante messaggio basato sulla parola «pensare». L’autorizzazione, ma si potrebbe dire l’obbligo, a pensare. Un freno alla ricerca del consenso basata sull’emotività, sulle paure dell’altro, culturalmente o economicamente diverso. E poi, ancora, i termini «intelligenza», «ragionare», «Accademie», «bene», «partecipazione», senza dimenticare «Costituzione». Ammoniva un grande predecessore di Delpini, il cardinale contaminato dall’ambrosianità più acuta Carlo Maria Martini, che «la perseveranza è un dono impalpabile in una società dove tutto è “ad tempus”, per prova, fino a che va bene».
Ma la perseveranza è una delle attitudini della milanesità, come l’abitudine a trasformare le parole in fatti, incominciando dai temi — ecologia, sostenibilità, sviluppo, salute, generosità , in estrema sintesi il futuro — suscitati dal sindaco Sala alla cerimonia di consegna degli Ambrogini e continuando con il termine «cultura» — che applicato alla musica diventa baluardo della «democrazia» — rilanciato dal presidente della Repubblica Mattarella proprio nel tempio laico cittadino della Scala. Poi, tra i bagliori e il fascino della Prima, la riflessione della senatrice Liliana Segre, superstite dell’Olocausto e monito vivente contro il male e i totalitarismi: «Io Attila l’ho guardato davvero negli occhi e non è riuscito a fulminarmi» . Voci diverse, di una potenza e vertigine alla quale — bisogna purtroppo ammetterlo — non siamo più abituati. Eppure è di un altro grande meneghino adottivo — e forse non è un caso — il prete di strada don Antonio Mazzi, la riflessione che «non ci sono mai altezze troppo alte, ma ali troppo fragili». Milano — al solito precorritrice — sta formando le proprie, nella speranza, che vuole diventare certezza, di far volare tutto il Paese.