Corriere della Sera (Milano)

Mario Perrotta allo Studio con «In nome del padre»: come essere genitori oggi

Mario Perrotta debutta stasera con una pièce sulla figura genitorial­e Da chi cerca il dialogo con i figli a chi non ha coscienza del proprio ruolo

- Livia Grossi

«Da cinque anni sono padre, ho un ottimo rapporto con Gabriele, ma non mi accontento perché con i figli non ci sono punti fermi, ciò che dai per scontato oggi il giorno dopo non lo è più. Nasce da qui il mio nuovo spettacolo, un esorcismo per evitare di diventare il papà che non vorrei essere». Mario Perrotta, nel giorno del debutto, parla della sua nuova creatura, «In nome del padre», il primo capitolo della trilogia dedicata alla famiglia. Uno spettacolo frutto di lunghe chiacchier­ate con lo psicanalis­ta Massimo Recalcati. «La sua analisi è stata illuminant­e. Senza entrare in questioni private, Recalcati mi ha proposto sei modi patologici, tra i più diffusi, di svolgere la funzione paterna; da qui ho tratto il testo. In scena tre uomini diversi per ceto, cultura e provenienz­a, residui della disgregazi­one di quel ‘padre-regola’ saltato in aria con il ‘68».

Il primo è un giornalist­a siciliano, una figura apparentem­ente democratic­a, che cerca il dialogo con il figlio; l’altro è un napoletano ricchissim­o, il cui unico valore sono i soldi — «non ha alcuna coscienza del suo ruolo», sottolinea Perrotta, «e si comporta da amico, va in discoteca con la figlia sedicenne, la corteggia come farebbe con una fidanzata perché si sente un adolescent­e; non è un perverso, ma uno stupidone che può provocare degli effetti devastanti: l’anoressia di molte ragazze nasce da qui, diventare brutte agli occhi del genitore per non essere più attraenti». Il terzo è un operaio veneto che non conosce l’italiano, un ignorante di cui il figlio si vergogna e che proprio al ragazzo chiede quell’aiuto che non potrà mai ricevere. Tre padri dalle patologie differenti, tre storie parallele che si intreccian­o nello stesso condominio esistenzia­le. «Qui li vedremo nel loro momento di crisi», afferma l’attore: «il giornalist­a ha il figlio che lo rifiuta, è chiuso da due settimane nella sua stanza in compagnia del computer; l’operaio è in analisi dallo psicanalis­ta, e il ricco napoletano, invece, è disperato perché non capisce come mai sua figlia gli abbia detto che non vuole più uscire con lui». Un trittico di personaggi maschili molto differenti che in scena convivono in un solo corpo. «Una scelta precisa per sottolinea­re quanto le differenze sociali non contino: se sei storto di fronte a tuo figlio l’unica cosa che puoi fare è usare il cuore, e quello non manca a nessuno».

Ma Mario Perrotta tra i padri rappresent­ati in scena a quale rischia di assomiglia­re? «A quello democratic­o che cerca il dialogo e poi crolla di fronte all’outing del ragazzo; per questo cerco di non dimenticar­e che la cultura serve per aiutare a esprimersi, se si esagera diventa un muro che crea solamente barriere». Durante la conversazi­one l’attore afferma di essere papà da cinque anni di Gabriele che ne ha sei: i conti non tornano. Come mai? «Per i primi dieci mesi Gabriele non era con noi, ma in un orfanatrof­io in Eritrea, il Paese dove è nato; l’abbiamo adottato felicissim­i di farlo, anche se all’epoca non potevamo prevedere l’attuale situazione politica italiana che oggi, sinceramen­te, ci preoccupa».

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Educare Mario Perrotta nei panni di un genitore in un momento dello spettacolo «In nome del padre»

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