I commercianti: un grave danno senza domeniche
Corso Buenos Aires in rivolta: costretti ai tagli
Commercianti sulle barricate contro la proposta di legge — ancora in discussione — sulle chiusure domenicali. In corso Buenos Aires minacciano: «Così saremo costretti a lasciare a casa i lavoratori». Per 26 domeniche di serrande abbassate all’anno (e otto festività) nel distretto commerciale, Confcommercio stima una perdita di quasi 14 milioni, un calo del 10 per cento degli incassi e una ricaduta sull’occupazione: 50 addetti a rischio.
«Sarò costretto a lasciare a casa qualcuno». «Un freno per le nuove aperture». I commercianti sulle barricate, in corso Buenos Aires. A inquietarli è la proposta di legge, ancora in discussione, che potrebbe portare alla chiusura dei negozi per 26 domeniche all’anno e 12 festività di cui quattro derogabili (sarebbero esclusi i punti vendita nei centri storici, le botteghe di vicinato e altre categorie). Quale sarebbe il danno per uno dei principali distretti commerciali della città? Prova a rispondere Confcommercio Milano, che ha fatto i conti in tasca agli esercenti.
Sono 222 le insegne lungo corso Buenos Aires, per un toLo tale di 40.765 metri quadrati di superficie di vendita. Nella mappa salta all’occhio un grande negozio di 2.800 metri quadrati, affiancato da altre 33 realtà di medie dimensioni, mentre sono 720 le persone impiegate a tempo pieno. shopping lungo la via porta un fatturato annuo di 137,5 milioni, il 64,5 per cento finisce nelle tasche dei negozi medio-grandi.
Cosa succederà con 26 domeniche in meno? Confcommercio stima una perdita di 13 milioni e 750 mila euro, il 10 per cento degli incassi, con una ricaduta negativa sull’occupazione. Le saracinesche abbassate potrebbero portare al licenziamento di 50 addetti, il sette per cento del totale. L’impatto è calcolato tenendo
conto di chiusure programmate nei periodi «di magra». Il meno peggio che i commercianti possono aspettarsi, se la proposta di legge si concretizzasse. In tanti ritengono che la decisione sia fuori luogo. «Faccio questo mestiere da 20 anni, ormai tutti sono abituati a lavorare nel weekend» dice Bruno Beretta, responsabile retail della catena di cosmetica Wycon. Il punto vendita in Buenos Aires è aperto tutti i giorni dalle 9 alle 20 ed è gestito da otto persone. «I dipendenti sono spaventati dall’opzione della domenica a casa, temono di perdere ore e quindi parte del compenso. Con 12 ore in meno alla settimana, una testa salta sicuramente». Secondo Beretta è difficile che i clienti persi nel weekend si ridistribuiscano nel corso della settimana, «soprattutto per lo shopping d’impulso. E come la mettiamo con gli affitti?». Davide Panosetti di Pangea retail si occupa dello sviluppo delle grandi catene ed è consulente per il marchio Okaidi, che ha una vetrina sul corso. «La proposta crea grande incertezza e blocca i nuovi investimenti dall’estero — spiega —. Da mesi nessuno ci chiede più di aprire punti vendita diretti in Italia, nemmeno a Milano. E nel medio periodo i canoni d’affitto scenderanno, perché i commercianti dovranno fare i conti con il calo del fatturato. Oggi la domenica è il secondo giorno per volume di incassi».
Chi invece non è contraria a un calendario prefissato è la Filcams Cgil. «Le saracinesche alzate di domenica non hanno fatto aumentare l’occupazione, anzi — dice il segretario milanese Marco Beretta —. C’è stata un’esplosione di contratti precari e un peggioramento dei compensi per chi lavora nei festivi. Colpa del decreto Salva Italia del governo Monti, che ha dato il via alle liberalizzazioni». La Filcams chiede che si torni a regolamentare i giorni di apertura, tenendo conto della vocazione turistica di Milano. «E il governo si interessi alle condizioni di lavoro dei dipendenti».