«Imparate dai nostri errori»
Manolo, Matteo e gli incontri nelle cogestioni
Manolo e Matteo si sono conosciuti a San Vittore. Carcerati per reati gravi. In questi giorni incontrano i ragazzi delle scuole superiori impegnati nelle cogestioni: «Facciamo scuola di legalità».
Molti anni di carcere e reati gravissimi alle spalle. Un passato nero e anche «cattivo» di cui a lungo si sono vergognati. Oggi non più. Hanno faticosamente trovato un senso a ciò che è accaduto, cercato il riscatto, provato a riparare se stessi. Ora restituiscono qualcosa alla società.
Inizieranno a raccontare la loro storia nelle scuole in questi giorni di cogestione: «Non è facile aprire capitoli così dolorosi in pubblico, ma dicono che la nostra testimonianza sia utile per educare i ragazzi alla legalità, e noi ci vogliamo credere». Manolo, 43 anni e una bellissima figlia, e Matteo, 27 anni e il nome della mamma marocchina persa da piccolo tatuato in fronte, si sono conosciuti tanti anni fa a San Vittore.
Adolescenze difficili, segnate dalle armi e dalle sostanze. Entrambi stanno ancora finendo di scontare la pena in «affidamento terapeutico», forma alternativa al carcere, seguiti dal SerD di via Albenga. Incontrandoli colpisce subito una cosa: chiedono continuamente «Mi scusi».
Due parole dimesse, le parole di chi è abituato a pensare che, qualunque cosa faccia, è sempre in torto. «In galera non è facile convincere che ormai sei rieducato. Specie se sei etichettato come individuo incline alla recidiva — racconta Manolo —. Sono cresciuto al Giambellino con un padre molto violento, della banda di Renato Vallanzasca. Mia mamma era bidella ma si faceva chiamare «operatrice scolastica», era orgogliosa del suo lavoro. Io giocavo nei pulcini del Milan. Ho buttato tutto alle ortiche perché avevo dentro molta rabbia e non sono stato abbastanza forte da resistere alle lusinghe del denaro facile». A sedici anni spacciava, girava (ovviamente senza patente) con le macchine più belle e le armi. Una volta lo hanno trovato in strada con un kalashnikov, un’altra volta ha mandato in coma un ragazzo del quartiere con sette coltellate. Un episodio gravissimo. «Eppure è stato proprio quella la chiave di volta per me», ricorda Manolo.
Era al Beccaria, accusato di tentato omicidio. La vittima doveva riconoscere l’autore dell’aggressione. «Dal carcere minorile avevo mandato alcuni amici a “convincerlo” a non riconoscermi ma lui non aveva ceduto. Allora io davanti al giudice ho fatto scena. Ho finto di essermi pentito, ho implorato
L’infanzia Mio padre era nella banda di Vallanzasca Io giocavo nel Milan
perdono, mi son persino messo a piangere. Lui però incredibilmente mi ha creduto, mi ha abbracciato ancora dolorante per le ferite, ha detto “Va bene ti perdono” e mi ha dato il cinque, come usava nel nostro quartiere». Quel gesto non meritato di fiducia non l’ha mai dimenticato. «Dopo ne ho combinate ancora tantissime, ma se ad un certo punto ho risalito la china, lo devo anche a lui».
A volte s’incontrano di nuovo per le strade del Giambellino: «Fa l’infermiere, ogni volta ci abbracciamo e mi sento ancora così grato di quel perdono». È il nocciolo della giustizia riparativa, in fondo. Matteo (come Manolo) ha una compagna di cui è profondamente innamorato. In carcere ha preso il diploma, fa volontariato con un bambino cinese autistico che lo adora, vorrebbe lavorare con le disabilità. «Un po’ di orgoglio per il percorso che abbiamo fatto l’abbiamo», sorride.
Andranno al Brera, al Porta, al Tito Livio e al Vittorini, tanto per iniziare. Il timore, visto che stanno arrivando ora sentenze definitive per reati di tanti anni fa e mai scontati, è di dover tornare dentro. Che la clessidra del tempo si rigiri di nuovo.
«Per come siamo diventati oggi, forse alla società possiamo essere più utili fuori — azzarda timidamente Matteo —. Decideranno altri. Comunque per quello che abbiamo fatto prima, mi scusi».