SARPITOWN RIMPIAZZA CHINATOWN
Anche le città hanno un metabolismo. Assimilano e, assimilando, si trasformano. L’eccezionale diventa ordinario, e non è detto che sia un male. Prendiamo via Paolo Sarpi: quartiere, comunità. Fino a pochissimi anni fa, anzi ieri, le lanterne rosse erano un tocco esotico che Milano faceva suo con la sorridente riluttanza di chi, in fondo, ha altro cui pensare. Adesso invece la simbologia dell’anno del maiale tracima dal quartiere storico dei cinesi: la celebrazione più cara all’Estremo Oriente, il capodanno lunare appunto, è ormai una festa persino ovvia mentre l’Ipsos rileva che per i milanesi la terza nazionalità percepita più «vicina» è la cinese. Il quartiere muta. Non più gruppi contrapposti ma una fertile mescolanza di origini e generazioni; tanti studenti, figli di una borghesia che nella Repubblica Popolare prima semplicemente non c’era. Non più Chinatown, allora, ma «Sarpitown». Una nuova identità come evoluzione della vecchia.
Basta frequentare le sue vie o anche le pagine social dedicate al quartiere: l’impressione è che si stiano rarefacendo le posizioni estreme (l’insofferenza gridata o l’aprioristico «va tutto bene») a vantaggio di una normalità consapevole. Avanti, dunque, con le responsabilità condivise. Senza sedersi su una sterile movida etnica e appiattire i talenti della zona nelle forme d’una food street senz’anima. Sarpitown come esempio, stimolo per altre zone, anche in periferia, pensando ad altre comunità. Difficile, come no. Ma forse non impossibile.