Quei ragazzi senza sogni schiacciati dal bisogno di soldi, famiglia e lavoro «Rischiano di deragliare»
Don Salatino: povertà sovrapposte, progetti isolati non bastano
Federica fissa l’insegna dell’Eurospin di via Saponaro. Accanto c’è il fratellino di 13 anni che ondeggia sulla bicicletta Ofo senza serratura. «Cosa sogno? Niente. Qui viviamo ogni giorno andando avanti senza guardare».
Federica ha 17 anni. L’anno scorso ha smesso di andare a scuola. Faceva un corso per diventare parrucchiera. Dice che vorrebbe fare qualcosa per aiutare la sua famiglia. Il padre fa il muratore a chiamata e la madre ha perso il lavoro in una coop di pulizie. Lei di tanto in tanto va a fare i mestieri, a 17 anni, per 10 euro l’ora. E sono soldi che servono in casa, perché soldi non ce ne sono e quelli che si trovano non bastano mai.
Federica dice che i ragazzi della sua età vivono questo quartiere come una maledizione. Che non c’è niente, non ci sono bar aperti la sera. Che l’unico che c’è è pieno di gente senza un soldo che si gioca la vita alle slot. Che i suoi amici la sera fumano erba sulle panchine. Che l’erba per molti ragazzi è un pensiero fisso. Erba fumata, erba spacciata ma in giri criminali improvvisati. Che semmai quelli «importanti» poi finiscono a Rozzano. Ma neanche l’antistato qui è una prospettiva per uscire dal ghetto.
Un ghetto dove Federica si chiude la sera, nella sua stanza, chattando con le amiche: «Perché qui cosa devi fare? A Milano ci vado solo il sabato sera perché dormo da un’amica. Ma mica siamo gente che va in via Torino a guardare le vetrine. Poi se una cosa ti piace che fai? Senza soldi cosa compri?».
La Milano di Federica è più lontana dei tre chilometri di rotaie che separano questo angolo dalla fermata di piazzale Abbiategrasso. Sembra un mondo a parte, Milano. Un mondo che non appartiene a questo quartiere dove le strade collegano palazzi e, come in un pallottoliere, ad ogni fermata i problemi si sommano e poi si moltiplicano. «Fino ad annichilire i sogni di questi ragazzi, a travolgerli in una quotidianità di problemi familiari, disagio sociale, bisogno economico», racconta don Giovanni Salatino, 40 anni, combattivo parroco della chiesa di San Barnaba. «Qui il problema sono le povertà sovrapposte, il degrado che si somma al malessere sociale. Una gestione abitativa così scellerata da rendere vano ogni intervento. Noi mettiamo toppe, un sacco di toppe. Ma non bastano mai».
Il parroco don Giovanni è insieme a una decina di persone. Ci sono i responsabili di alcune associazioni, c’è il preside della scuola media del quartiere, c’è quello di un istituto professionale di Rozzano, ci sono gli educatori dello Scrigno, ragazzi poco più che ventenni. Sono tutti «missionari» in un quartiere dove la «Bella Milano» dei social e il «riscatto delle periferie» sono concetti che impallidiscono di fronte a bisogni essenziali, quasi arcaici. Quando don Giovanni si contorce elencando i problemi, loro provano a ricordare la strada che è stata fatta. Quello che non c’era e oggi c’è. Ed è moltissimo: dai corsi di computer e fotografia, al doposcuola. Alle gite. E raccontano di quel giorno in cui sono andati alla Fondazione Prada con i ragazzi del Gratosoglio a bocca aperta. «Sono giovani recettivi, c’è voglia di fare. I progetti sono sempre partecipati. Anzi, il vero problema è che spesso alla fine di un progetto non c’è altro. Dopo sei mesi di lavoro tutto torna come prima». «Andate a sentire i ragazzi, girate nel quartiere e capirete», suggerisce don Giovanni.
Federica ha un filo di trucco. Conosceva di vista Micol Chessa, la ragazza con la pistola che a novembre insieme a due amici ha rapinato una farmacia in via Boifava e ha quasi ucciso uno dei complici fuggendo dalla polizia. «È una deficiente, cosa pensava di fare?». Non c’è al Gratosoglio quel fascino della criminalità che esiste in altri quartieri e, a dispetto della nomea, non ci sono neppure padroni da invidiare. C’è un’immigrazione fatta di prime e seconde generazioni buttate qui da criteri di assegnazione delle case popolari che, come dice don Giovanni, «sovrappongono povertà». C’è quella che chiamano «la casa gialla», che poi è il dormitorio di via Saponaro. Un tempo era la mensa dei frati vicino a via della Moscova, oggi è una inevitabile criticità nascosta sotto al tappeto in un angolo di Milano. Ma qui i mali sociali si moltiplicano: «Ci sono famiglie sfasciate, con il padre in carcere o alcolista e la madre sotto psicofarmaci, dove i soli a portare soldi in casa sono i figli». Figli giovanissimi, perché la dispersione scolastica è uno dei problemi principali di questa generazione. «Li teniamo fino alle medie, a volte a fatica. Altre con risultati brillanti. Ma il periodo critico arriva dopo i 15 anni: la fame di soldi porta ad abbandonare gli studi, ma lavoro non ce n’è. Soprattutto nel quartiere. Cerchiamo di tenere i ragazzi dentro ai binari, ma sono rotaie sottilissime. Basta un’amicizia sbagliata per deragliare». Come successo a Otman Hassaine, complice 19enne di Micol Chessa. «Frequentava un corso professionale poi non si è più presentato. Mai lo avremmo immaginato...»
Non ci sono solo famiglie problematiche, droga o abuso di alcol. «Però, soprattutto con i ragazzi, succede una sorta di contagio. Nel senso che le situazioni di disagio sociale degli amici, delle loro famiglie, finiscono per condizionare anche le loro scelte. Così ragazzi che potrebbero andare al liceo scelgono, come se il loro destino di figli delle periferie fosse ineludibile, un istituto professionale o il lavoro». Nei parchi, sulle panchine, decine di ragazzi e ragazze. Storie identiche a quella di Federica. «I loro coetanei di altri quartieri sognano di fare i cantanti. Loro no. Non hanno sogni, non vedono una speranza. Sono anestetizzati da una quotidianità che gli toglie energie. Vite al ribasso. Non possiamo permetterci che continui così».