«Porto un fiore a uno sconosciuto per mio papà gettato nelle foibe»
Piero Tarticchio è l’ideatore del monumento alle vittime di Tito
nel 1936, è conosciuto nella comunità istriano-dalmata non soltanto per i romanzi ispirati al mondo dell’esodo (l’ultimo si intitola «Maria Peschle e il suo giardino di vetro», Mursia) e per l’attività di artista, ma perché ha un triste record: ben 7 dei suoi famigliari sono finiti nelle foibe.
Quella di Tarticchio è una delle testimonianze più toccanti che arricchiscono il mio libro «Italiani due volte» (Solferino). Il racconto comincia naturalmente da quella notte tra il 4 e 5 maggio 1945 quando bussarono alla porta di casa quattro partigiani di Tito. «Saranno state le due, andò ad aprire mia nonna Maria. Entrarono tre uomini armati di mitra che indossavano la bustina con la stella rossa, il quarto era in abiti civili e parlava italiano. Facendo un rumore infernale con gli scarponi sul pavimento di legno svegliarono anche me. Così li vidi entrare nella stanza dei miei genitori e li sentii ordinare a mio padre Lodovico di vestirsi e seguirli. Intanto depredarono tutto quel che potevano, i vestiti paterni, il corredo della mamma Lucia, marenghi d’oro, sessantamila lire in contanti. Uno di loro uscì con sei cappelli sulla testa».
Lodovico Tarticchio, commerciante che «non aveva mai vestito la camicia nera», fu imprigionato nel fondaco dell’orzo di Dignano, quindi trasferito in una cella del castello dei Montecuccoli a Pisino. «Fu lì che lo intravidi l’ultima volta verso la fine di giugno, il 25 o il 26. Non capivamo perché avessero arrestato proprio lui. La spiegazione me la diede anni dopo una studiosa croata: era stato preso perché commerciante. Il suo negozio rappresentava un centro di scambio, di vita sociale e in quanto
L’irruzione Tre uomini armati e un altro in abiti civili tra il 4 e 5 maggio 1945 presero di notte mio padre e depredarono tutto quel che poterono