Bar, bici, palline di coca: la «vita minima» di Ashraf
Lo spacciatore morto per aver ingoiato una dose di droga. Case Aler e via Chiesa Rossa le sue basi
Il bar ha il nome di un personaggio dei fumetti. È in via Chiesa Rossa. Uno di quei posti conosciuti dagli sbirri e dalla variegata popolazione della controparte. Come Ashraf, il 46enne morto alle 19.30 di sabato, nell’ospedale Fatebenefratelli. Questo bar era il baricentro della vita del tunisino, di professione spacciatore, ucciso da una pallina di cocaina, ingoiata alla vista dei poliziotti mentre era fermo in viale Giovanni da Cermenate, intorno alle 18, sempre di sabato. Una strategia comune e, nel caso di Ashraf, una pratica abituale. Più d’uno, tra poliziotti e carabinieri, l’aveva notato in passato con quel solito fare sospetto, ovvero di chi attende un cliente, e, al primo accenno d’inseguimento, l’aveva visto ingerire tutto. Inutile ripeterglielo, che era pericoloso.
Due pagine fitte di precedenti (resistenza a pubblico ufficiale, lesioni, minacce tra la Lombardia e il Piemonte), sembra che Ashraf fosse a Milano da solo. Vedremo se qualcuno si farà avanti per pagare il rimpatrio della salma oppure, in caso contrario, se della pratica si occuperà il consolato tunisino. Lo spacciatore non aveva nessun documento d’identità, l’altro giorno, del resto era irregolare, motivo per cui, aveva detto agli agenti a bordo della pattuglia, nel trasferimento dalla periferia alla questura, aveva accelerato il passo alla loro vista. Temeva, aveva ripetuto, un provvedimento di espulsione. Non ha spiegato di cosa avesse paura, se rispedito in Tunisia, a maggior ragione in confronto alla sua vita minima milanese, senza prospettiva, poco più che un barbone, la droga ricevuta dai capi e consegnata a bordo di una bici. Non aveva un alloggio, Ashraf, che si appoggiava nel vicino quartiere Stadera da connazionali in affitto e occupanti abusivi delle case popolari, ma che a volte finiva a dormire per strada. Bevitore di caffè e birre, sabato aveva accusato un malore nella camera di sicurezza della questura, nel cui cortile c’era già un’ambulanza, chiamata per eventuali complicazioni di un altro fermato, un diabetico posizionato in cella insieme ad Ashraf, il quale, quando l’involucro di cocaina gli si è aperto dentro, ha iniziato a urlare e vomitare schiuma, vivendo, come ha detto un medico dello stesso Fatebenefratelli, una delle «più atroci agonie mai viste».