I giudici: Binda assolto dalla scienza
Le motivazioni dei giudici. «Ma le indagini riprenderanno»
«Èla scienza che ha testimoniato a favore di Stefano Binda e che ha introdotto negli atti processuali un dubbio più che ragionevole circa la sua estraneità rispetto al delitto». I giudici della corte d’Assise d’appello di Milano hanno depositato le motivazioni che il 24 luglio hanno portato all’assoluzione di Stefano Binda, l’ex compagno di scuola di Lidia Macchi, la studentessa 21enne ritrovata cadavere il 7 gennaio 1987, e del cui omicidio Binda era accusato. Delitto rimasto ancora senza un colpevole. Ma gli stessi giudici annunciano che le indagini riprenderanno.
VARESE «Mere presunzioni e assertive congetture». «Irrisolte aporie logiche e innumerevoli contraddizioni concettuali cui presta il fianco la progettazione accusatoria nei confronti dell’imputato che porta ad affermare a suo favore molto più che il ragionevole dubbio: la ragionevole certezza della sua estraneità al delitto». La presidente della prima sezione della corte d’Assise d’appello di Milano Ivana Caputo scrive queste parole per giudicare gli elementi emersi durante il processo per il «caso Lidia Macchi», la studentessa 21enne trovata uccisa in un bosco non distante dall’ospedale di Cittiglio nel gennaio di 32 anni fa. Per quell’omicidio venne condannato all’ergastolo dopo oltre due anni di carcere Stefano Binda, ex compagno di liceo della vittima, cinquantaduenne di Brebbia con un trascorso legato a dipendenze ma anche alla frequentazione dello stesso giro di amicizie di Comunione e Liberazione.
Le 262 pagine
Una sentenza impugnata in appello che ha invertito le sorti dell’ex studente di filosofia, scagionato lo scorso 24 luglio, assolto per non aver commesso il fatto. Decisione clamorosa per un processo che la stessa accusa definì più di una volta come indiziario, e che trova fondamento nelle 262 pagine delle motivazioni appena depositate. Secondo la corte di Milano «è la scienza che ha testimoniato» a favore di Stefano Binda e che ha «introdotto negli atti processuali un dubbio molto più che ragionevole circa la sua estraneità rispetto al componimento poetico, e, quel che più conta, rispetto al delitto». Il riferimento è alla poesia anonima «In morte di un’amica» arrivata alla famiglia il giorno del funerale e ritenuta dall’accusa essere stata vergata dall’assassino. Scritto che ha avuto grande rilievo anche nel dibattimento d’appello con la comparsa in aula dell’avvocato Piergiorgio Vittorini contattato da una persona che gli rivelò di essere l’autore della lettera ma non l’assassino.
Battaglia di perizie
Su quello scritto vi fu battaglia di perizie, ma secondo i giudici d’appello la lettera non è da ritenersi la «firma» dell’assassino, e non è stata scritta da Binda né chiusa con la sua saliva. Ma non solo. Lidia quella notte ebbe il suo primo rapporto sessuale, sebbene «prove reali sulla violenza carnale, non ve ne sono», e dall’esame genetico forense seguito alla riesumazione del corpo nel 2016 da cui venne estratto il dna mitocondirale su peli pubici di «incognito2» (la persona con cui la ragazza ebbe il rapporto sessuale) è escluso che questi appartenessero a Stefano Binda, risultati che anzi lo «scagionano», ma ritenute prove neutre dai giudici di Varese.
Mancanza di prove
Tra i punti su cui il tribunale di secondo grado ha dato ragione alla strategia difensiva c’è anche la mancanza di prove legate alla presenza di Binda a Cittiglio la notte dell’omicidio poiché ha sempre sostenuto di essere a Pragelato, in Piemonte, assieme al gruppo di gioventù studentesca, componente giovanile di CL: di questa vacanza aveva appuntato nei suoi diari anche il numero della camera (la numero 212) e i nomi di alcuni partecipanti alla gita, due dei quali si ricordarono di lui, ma non vennero giudicati attendibili in primo grado. «È una sentenza molto ben strutturata, completa che accoglie in toto le istanze d’appello, cioè la totale innocenza di Stefano», afferma Patrizia Esposito, difensore di Binda assieme a Sergio Martelli. «Sono pagine dense, corpose, che andranno analizzate con attenzione. Di fatto non abbiamo ancora avuto il tempo per leggerle tutte, ma da una prima valutazione appare certo che la Corte abbia letto ogni passaggio del processo: verbali, perizie, oltre alle requisitorie, dimostrando che non era necessario altro tempo per decidere. È stata prestata la massima attenzione ad ogni referto, anche quelli in cui si dimostrava l’innocenza dell’imputato, a cui è stato ritagliato addosso il vestito del mostro».
Ora, sul piano processuale, si attende la richiesta di ricorso in Cassazione, annunciata dalla parte civile. Ma le ultime battute delle motivazioni lasciano aperta la possibilità che le indagini per risalire all’assassino di Lidia Macchi possano riprendere: «Strada investigativa irta di difficoltà, certamente, ma ancora possibile e percorribile», scrive il giudice.