Tre registi a canestro Il mitico playground diventa un docu-film
Premiato il film sul campetto del Sempione
C’è il ragazzo camerunense che fa il pasticciere a Saronno. Il milanese di famiglia borghese appena laureato in Ingegneria. Quello venuto col barcone che qui è diventato amico del banchiere. Ci sono storie incredibili che ruotano intorno al campetto del Sempione.
Ognuno porta dentro il suo mondo. Al punto che tre registi hanno deciso di girarci un corto. Si chiama Playground
Addiction e ieri è stato premiato allo Sport Movies & Tv 2019. «L’idea è venuta venendo qui per diverse settimane senza camere: ci aveva colpito lo spirito di comunità che si respira», raccontano Niccolò Rastrelli e Carlo Furgeri Gilbert (l’anima più fotografica) e Marzio Mirabella (quella di videomaking). Insieme hanno formato il collettivo Nicama. Sono venuti a girare per due estati di fila. Hanno intervistato i ragazzi solo quando si sono fidati di loro. Ora il corto sta girando una serie di festival indie nel mondo: «Se trovassimo un produttore ci piacerebbe girarne una versione più lunga», raccontano.
Il basket di strada è una cosa seria, anche se non sacra come in certi campetti sudati delle metropoli americane. A Milano i playground cominciano ad avere la loro storia: oltre a quello del Sempione, c’è quello di Dezza o quello di viale Lazio dove ha allargato le spalle Danilo Gallinari. I campi aumentano e soprattutto si riempiono. Non servono neanche tutti i 12 minuti del film per capire che lo street basket non è solo pallacanestro. È un luogo di integrazione naturale, uno spazio di conoscenza, dove coltivare rispetto reciproco. «Solo al Sempione non c’è razzismo: questo luogo ti fa aprire la mente», dice nel film un ragazzo senegalese. Anche intorno al campo c’è un universo variegato: mamme col passeggino e pusher. Il ragazzo che legge un libro in cuffia e quello che ascolta hip hop su un piccolo stereo iper datato. La mamacita che vende il suo street food e il novello Bob Dylan. Qui dove tanti ragazzi milanesi hanno preso il sole, fatto finta di studiare, suonato il bongo, ognuno in campo vive come fosse su un palco. Ci sono poi tanti piccoli segreti, come il tombino dove nasconde il pallone l’ultimo che smette di giocare. Le stesse regole che hanno accettato anche Kobe Bryant o Kareem Abdul-Jabbar, quando sono passati di qui.
In termini di sudore e colpi sembra più pugilato che basket. Istinto e voglia di dimostrarsi più forte: «Un gioco creativo, c’è una squadra ma tutti giocano singolarmente», spiegano i registi. Il territorio se lo sono dovuto conquistare, dato che fino a una quindicina di anni fa qui si allenavano giocatori professionisti. Insieme ai flussi migratori, sono arrivati gli stranieri. Prima si sono presi a pugni. Poi hanno deciso che era più democratica una bella sfida ai 60 punti. E si sono guadagnati il campo dove ora giocano soprattutto il sabato e la domenica. Sempre in una sola metà campo, quella con il canestro che nel pomeriggio non è controsole. La strada vince sempre. E soprattutto ti insegna che andando sempre a 100 all’ora, a furia di fare quei movimenti che hai imparato in televisione, a quelli che all’inizio ti sembrano giganti, prima o poi salterai in testa. Non è un miracolo. È la legge del campetto.