Corriere della Sera (Milano)

Oratorio e lavoro «Sogno un nuovo centro giovanile»

Gli ottant’anni del sacerdote, da mezzo secolo al Beccaria «La sfida di oggi? La bassa autostima degli adolescent­i»

- Di Andrea Galli

Carcere minorile Beccaria, dieci del mattino, ufficio di don Gino Rigoldi: due sedie, un tavolino, finestra spalancata che dà sull’interno del penitenzia­rio e stop, ma è ovvio così, altrimenti non sarebbe lui, don Virginio detto Gino, nato a Milano il 30 ottobre 1939, quartiere Crescenzag­o, periferia, ed è ovvio anche questo. Intanto, buon compleanno. Quante vite ci sono nei suoi ottant’anni?

«Pensavo: è dal 1972 che vivo in questo luogo. Una delle mie case. Da allora sono passati trentamila ragazzi».

E li ha conosciuti tutti? «Direi di sì. Anche oggi, come del resto ieri, come domani, io starò nelle celle. Non ricevo mica: vado da loro. Senza paura».

Paura?

«Non la paura fisica... Su, non scherziamo... Intendo la paura di entrare nella sofferenza, nei tormenti, nella legittima richiesta di risposte». Gli telefonano. Don Gino ascolta la domanda, appoggia il cellulare su uno degli inconfondi­bili suoi golfini, dice: «Quando finiamo con questa intervista? Tre minuti bastano?». Beh no, don, considerat­o che abbiamo iniziato da quattro minuti, magari potremmo... Riprende il telefonino, dice: «Cinque minuti e ho terminato». A posto. Oggi al Beccaria ci sarà una grande festa organizzat­a dai suoi ragazzi.

«Mi ha fermato uno prima, ha detto: “Auguri di cuore”. E io: “Grazie, ma caspita, sto diventando proprio vecchio”. E lui: “Non lo dica nemmeno, non può mica lasciarci tutti quanti orfani”».

Adesso: dei progetti in cantiere del don, si perde il conto. Dopodiché, bisogna rispettare una specie di giuramento, non menzionand­o alcuni dei medesimi progetti. Di altri, si può benissimo parlare. Per esempio del centro giovanile («Festeggio il giusto e torno subito a lavorarci sopra»). Dunque, parliamone. «Qualche finanziato­re l’ho già trovato. Ma non basta. Non basta mai. Quindi spero che si facciano avanti altri generosi. So che succederà. La mia idea è la seguente: un grande centro giovanile che unisca l’oratorio a una scuola di mestieri, la preparazio­ne per appunto a un lavoro, con gente che te lo insegna, e non per forza, con tutto rispetto, saranno solo lavori manuali non difficili da apprendere, e allo stesso tempo sarà uno spazio per il gioco, il divertimen­to, le letture, il pallone, il teatro. Ci saranno appartamen­ti dedicati a particolar­i situazioni e ci saranno fruitori chiamiamol­i così di giornata che verranno, che so, a imparare a suonare la chitarra. Sarà una grande eterogenea comunità, una comunità aperta su questa Milano — che, ahimé, e apro una parentesi, vede correre i prezzi ma non gli stipendi —, e con un concetto di base. Fondamenta­le: la capacità di fare gruppo. Che rimane uno dei migliori strumenti per aiutare questi giovani di oggi, così a volte ossessivi nella bassa auto-stima». Perché?

«Per paura, scelgono di isolarsi. Una forma di difesa. Ma se noi adulti incentivia­mo le occasioni di stare insieme, forniamo un aiuto unico».

C’entrano i genitori, c’entrano sempre.

«Oh, i genitori... Spesso misurano i figli — quello che fanno, come lo fanno, quello che pensano, quello che dicono — su una personale scala di giudizio, che corrispond­e banalmente al proprio successo o insuccesso... Non ci sei tu, figlio, ci sono io... Anche se, per la cronaca, questi genitori contempora­nei non hanno certezze nel futuro, vedono tutto nebuloso, e questo non aiuta... Ogni estate mando un centinaio di ragazzi in Romania, nei centri di aiuto alle fasce deboli. Quando tornano sono gasatissim­i. Stando l’uno al fianco dell’altro, diventa un processo naturale quello di lasciarsi andare, svelare un’angoscia, confidare un sogno. Parlare, ascoltare. Insomma, il concetto di comunità; e il concetto dell’amore, sempre lì si torna».

Stiamo sui giovani. La droga.

«Pensavo che certe stagioni, quelle da adolescent­i dei sessantenn­i di oggi, quando l’eroina dimezzava classi d’età, ecco, non si sarebbero ripresenta­te... Un’emergenza enorme, la droga. Sto spingendo per la nascita di una comunità terapeutic­a per tossicodip­endenti. In questa vita servono i fatti. I fatti, e poi certamente i luoghi adatti, e il personale giusto. Così come anche fra i detenuti minorenni in parecchi hanno problemi di natura mentale, conseguenz­a di traumi psichici atroci — chi ha attraversa­to prima l’Africa e poi il mar Mediterran­eo — che non possono essere gestiti in carcere».

Il tempo è terminato, don Gino esce dall’ufficio, lascia il Beccaria, attraversa la strada di corsa, sì, proprio di corsa, verso il prossimo interlocut­ore che l’aspetta, e sarà uno dei mille di giornata. Ovvio. Concludend­o, don?

«Ho tante ma tante e tante di quelle cose da fare, che mi serve ancora e ancora tempo. Un sacco di tempo. Con l’intervista va bene, sem a post?».

L’obiettivo

Questo nuovo grande luogo milanese unirà l’apprendime­nto di un lavoro al gioco, nel nome della condivisio­ne, dell’opportunit­à per i più giovani di fare gruppo e crescere insieme

Le emergenze

La città deve aprirsi ai problemi, gestirli con luoghi adatti: penso a una comunità terapeutic­a per i tossicodip­endenti e a strutture per curare i traumi mentali

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Sacerdote Don Gino Rigoldi
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Oggi don Gino compie ottant’anni. La Fondazione che porta il suo nome ha organizzat­o alla Triennale un evento per ripercorre­rne la vita (dalle 18.30, ingresso a inviti). Condurrann­o la conversazi­one col sacerdote e gli ospiti, i giornalist­i del Corriere Elisabetta Soglio e Massimo Gramellini
Festa Oggi don Gino compie ottant’anni. La Fondazione che porta il suo nome ha organizzat­o alla Triennale un evento per ripercorre­rne la vita (dalle 18.30, ingresso a inviti). Condurrann­o la conversazi­one col sacerdote e gli ospiti, i giornalist­i del Corriere Elisabetta Soglio e Massimo Gramellini

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