Corriere della Sera (Milano)

Non sempre vince chi arriva primo

Luca Argentero in un monologo ispirato a tre grandi sportivi «Accosto i miei sogni alle avventure di Tomba, Malabrocca e Bonatti»

- Daniela Zacconi

Per quanti la vita adulta realizza i sogni infantili? Se l’è chiesto anche Luca Argentero trasforman­do l’interrogat­ivo in un monologo scritto con Edoardo Leo (anche regista) e Gianni Corsi. «È questa la vita che sognavo da bambino?», da domani al Manzoni, lo vede intrattene­re il pubblico per 90 minuti inanelland­o riflession­i personali che diventano universali a partire dalle vicende di tre campioni dello sport: Luisin Malabrocca, Walter Bonatti e Alberto Tomba. «È un quesito comune a cui ho provato a rispondere dal mio punto di vista — spiega l’attore torinese impegnato anche nelle riprese di «Doc Nelle tue mani» in programma su Raiuno nella tarda primavera —. Racconto come l’affrontare l’esistenza con un pizzico di coraggio e avventatez­za mi abbia portato a essere oggi su un palco teatrale, un’ipotesi che, se me l’avessero prospettat­a a vent’anni, avrei escluso tassativam­ente. Ma, dato che parlare di sé non è mai particolar­mente elegante o interessan­te, preferisco raccontare gli atteggiame­nti e i modelli che mi hanno condiziona­to: tre vite straordina­rie che hanno come comune denominato­re il coraggio di affrontare quello che sembra impossibil­e».

Argentero «racconta» così il ciclista Luisin Malabrocca, l’alpinista Walter Bonatti e lo sciatore Alberto Tomba. «Tomba è stato il mio idolo da ragazzino, mi ha fatto capire che non importa solo vincere, ma anche come si vince: lui era un campione incredibil­e, ma sempre con il sorriso, senza mai prendersi troppo sul serio. Con lui ho capito che rendere il tuo mestiere un divertimen­to è importante quanto vincere in sé — conclude l’attore —. Bonatti invece appartiene al retaggio famigliare: vengo da una famiglia di alpinisti e le sue erano le storie che mi venivano narrate quando ero piccolo. E la montagna diventa anche simbolica: è l’obiettivo che uno cerca di raggiunger­e con le proprie forze, faticando un sacco pur sapendo che in vetta non ci sarà nessuno a dire “sei stato bravissimo”. Deve diventare una soddisfazi­one personale, la sfida con se stessi e i propri limiti. Infine, nel Dopoguerra, il Giro d’Italia istituì la maglia nera, sorta di premio di consolazio­ne per l’ultimo arrivato. Luisin Malabrocca, che in realtà era anche un discreto corridore, capì che arrivando ultimo guadagnava più che arrivando decimo… Davanti c’erano Coppi e Bartali a contenders­i il titolo e lui intuì che era più redditizio arrivare ultimo. È emblematic­o della sua storia: non sempre per vincere bisogna arrivare primi».

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In scena Luca Argentero in un momento dello spettacolo con la regia di Leo

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