Non sempre vince chi arriva primo
Luca Argentero in un monologo ispirato a tre grandi sportivi «Accosto i miei sogni alle avventure di Tomba, Malabrocca e Bonatti»
Per quanti la vita adulta realizza i sogni infantili? Se l’è chiesto anche Luca Argentero trasformando l’interrogativo in un monologo scritto con Edoardo Leo (anche regista) e Gianni Corsi. «È questa la vita che sognavo da bambino?», da domani al Manzoni, lo vede intrattenere il pubblico per 90 minuti inanellando riflessioni personali che diventano universali a partire dalle vicende di tre campioni dello sport: Luisin Malabrocca, Walter Bonatti e Alberto Tomba. «È un quesito comune a cui ho provato a rispondere dal mio punto di vista — spiega l’attore torinese impegnato anche nelle riprese di «Doc Nelle tue mani» in programma su Raiuno nella tarda primavera —. Racconto come l’affrontare l’esistenza con un pizzico di coraggio e avventatezza mi abbia portato a essere oggi su un palco teatrale, un’ipotesi che, se me l’avessero prospettata a vent’anni, avrei escluso tassativamente. Ma, dato che parlare di sé non è mai particolarmente elegante o interessante, preferisco raccontare gli atteggiamenti e i modelli che mi hanno condizionato: tre vite straordinarie che hanno come comune denominatore il coraggio di affrontare quello che sembra impossibile».
Argentero «racconta» così il ciclista Luisin Malabrocca, l’alpinista Walter Bonatti e lo sciatore Alberto Tomba. «Tomba è stato il mio idolo da ragazzino, mi ha fatto capire che non importa solo vincere, ma anche come si vince: lui era un campione incredibile, ma sempre con il sorriso, senza mai prendersi troppo sul serio. Con lui ho capito che rendere il tuo mestiere un divertimento è importante quanto vincere in sé — conclude l’attore —. Bonatti invece appartiene al retaggio famigliare: vengo da una famiglia di alpinisti e le sue erano le storie che mi venivano narrate quando ero piccolo. E la montagna diventa anche simbolica: è l’obiettivo che uno cerca di raggiungere con le proprie forze, faticando un sacco pur sapendo che in vetta non ci sarà nessuno a dire “sei stato bravissimo”. Deve diventare una soddisfazione personale, la sfida con se stessi e i propri limiti. Infine, nel Dopoguerra, il Giro d’Italia istituì la maglia nera, sorta di premio di consolazione per l’ultimo arrivato. Luisin Malabrocca, che in realtà era anche un discreto corridore, capì che arrivando ultimo guadagnava più che arrivando decimo… Davanti c’erano Coppi e Bartali a contendersi il titolo e lui intuì che era più redditizio arrivare ultimo. È emblematico della sua storia: non sempre per vincere bisogna arrivare primi».