La lezione dell’imprenditore e il metodo Chinatown
Attività chiuse e consegne a domicilio rispettando norme e distanze. «Sapendo cosa succedeva in patria abbiamo adottato qui le stesse precauzioni»
Mentre Wuhan da dove tutto è iniziato si rialza, la Cina milanese fa proprie le precauzioni, l’autoisolamento e le misure che consentono di ridurre la diffusione del virus. E si organizza di conseguenza, con una disciplina che supera ordini e ordinanze. Lo chiedono le autorità sanitarie e politiche, lo dimostrano i dati, non solo quelli cinesi: a Wuhan ci sono solo 36 nuovi casi positivi; nella (ex) zona rossa del Lodigiano, in quarantena da due settimane, i casi positivi al Covid-19 calano. Non solo la serrata volontaria degli esercizi commerciali da due settimane: la comunità cinese esporta un po’ di quel rigore e di quell’organizzazione a cui ora l’Italia guarda, come al modello per rispondere all’epidemia. Per continuare a vendere dopo aver deciso di abbassare la saracinesca, i piccoli venditori di alimentari della comunità cinese di Milano confezionano all’interno del proprio market i pacchi con la spesa e vanno a consegnarla ai clienti. Casa per casa, col furgone pieno di sacchetti, l’agenda piena di indirizzi e l’accortezza di non superare la soglia d’ingresso dei palazzi, per evitare contatti con i clienti. «I nostri autisti lasciano la merce fuori dal portone, i clienti la prendono e rientrano», racconta Stella Lin, responsabile del personale del
Mood Market di via Paolo Sarpi, che già prima dell’epidemia faceva consegne a domicilio: «Ora lavoriamo soltanto così».
Un’organizzazione «orizzontale», la definisce Francesco Wu, referente in Confcommercio Milano per l’imprenditoria straniera. E che riguarda soprattutto i piccoli esercizi alimentari. «Ci sono macellai che fanno consegne a domicilio. Alcuni supermarket hanno potenziato i servizi già esistenti di delivery (è il caso di Kathai). Altri, i piccoli negozianti che tengono abbassata la serranda, preparano i pacchi di alimentari per i loro clienti e consegnano la spesa porta a porta, con la mascherina ovviamente. Ogni imprenditore, se vuole continuare a lavorare, si organizza per la consegna». Un servizio che serve soprattutto i più anziani e i più giovani: «La prima generazione e gli studenti Erasmus cercano i prodotti di casa. La seconda generazione usa il delivery di grandi supermercati come Esselunga o Carrefour».
Non solo spesa a domicilio: «È un’organizzazione silenziosa», spiega Angelo Ou, imprenditore sino-italiano e figura di spicco della comunità a Milano. Che si traduce anche in una riorganizzazione familiare. «I cinesi sono stati più precoci degli italiani: avevano letto e sentito sulle nostre chat quello che è successo a Wuhan, sapevano la gravità della diffusione del virus.
Hanno quindi deciso di autoisolarsi evitando il più possibile di uscire di casa, e certamente gli assembramenti. Nella Chinatown cinese si assiste ai “buoni raduni familiari”: si è tornati a fare la pasta fresca in casa, a parlarsi: perché si sta dentro le mura domestiche». E chiaramente ad occuparsi dei più fragili, gli anziani. «I giovani di ogni famiglia si occupano dei nonni, fanno per loro la spesa: il senso dei rispetto per loro fa parte della nostra cultura da 4.000 anni», commenta Wu. Molti negozi della comunità cinese si stanno inoltre organizzando per sfruttare questo periodo di chiusura autoimposta con lavori di manutenzione che altrimenti farebbero nel mese di agosto: «Un altro segnale di lungimiranza da parte della comunità», conclude Ou.
Un isolamento serrato che potrebbe presto fare da esempio al resto della città, se i numeri delle infezioni non caleranno: «Chiudendo tutto, la Cina ha superato ormai da due settimane il picco del contagio — dice Wu —. Lì c’è stata una partecipazione molto più ampia rispetto alle misure di contenimento del virus: e se qualcuno non partecipava, arrivava la polizia. Vedendo che lì funzionava, ci siamo messi in autoisolamento. Noi abbiamo fatto la nostra piccola parte: se tutt’Italia lo farà, forse riusciremo a fermare il contagio».