«Io e Gregotti il mio maestro»
Il maestro del Novecento stroncato da una polmonite I ricordi di Italo Rota, nel suo studio da ventenne: «Il progetto più riuscito è stato quello intellettuale»
Il progettista Italo Rota ricorda Vittorio Gregotti: «Un Maestro che sapeva spronare i giovani».
Sembra incredibile, visti gli esiti formali, ma Italo Rota — progettista del Museo del ‘900, del Just Cavalli e dell’Hotel Boscolo — iniziò a progettare con Vittorio Gregotti, progettista della Bicocca. «Da 18 fino a 24 anni — facevo l’università —, entrai nel suo studio in via Circo, davanti alle rovine. Era un laboratorio, arrivavano i grandi concorsi per la Calabria e Palermo, passavano Cerri, Nicolin, Battisti».
Ha appreso da lui a progettare?
«Non ho appreso l’architettura, ma la cultura del Movimento Moderno e delle Avanguardie. Aveva una grande biblioteca e passavano critici come Harald Szeemann. Gregotti è sempre stato generosissimo con me, fino alla fine, pur sapendo che non aderivo alle sue idee».
Sviluppate un’architettura molto diversa...
«A lui non interessava la Natura. Una volta andammo a vedere un terreno per una casa: attraversò un rigagnolo con le scarpe come per sfidare la Natura. Nei sui progetti c’è la Ragione. Non voleva capire nemmeno il mondo delle immagini, lo riteneva una malattia per l’architettura, un’idiosincrasia che nacque quando organizzò la Biennale EuropaAmerica».
E l’idiosincrasia per il mondo della moda?
«Era un aristocratico d’animo, un’aristocrazia industriale tipo Buddenbrook, che diventa intellettuale. Ha scritto pagine bellissime su suo zio, un’epica delle élite che stava finendo».
Credeva nell’architettura come attività critica e artistica.
«L’architettura è attività artistica, perché non va spiegata. Per me Zaha Hadid e Frank Ghery hanno liberato le forme; per lui no».
Con il progetto Bicocca per Pirelli ha continuato a credere nell’industria e nella Modernità.
«Non era più tempo per quel tipo di città, dove vedo assenza di individui e relazioni tra classi sociali e funzioni. Penso che la società e la Milano di oggi siano fatte dalla relazione tra migliaia di individui diversi, non organizzati o organizzabili spazialmente». Costruì anche quartieri popolari...
«Lo Zen è un’opera di colonialismo missionario dell’architettura, fatta da uomini sensibili, come lui».
Fu grande intellettuale. «Una figura bellissima. Era il mago delle riviste. Un libro come Il territorio dell’architettura del ’66, con i libri di Rossi, Aymonino e Venturi riaprì il tema dell’architettura scritta. Aveva libertà intellettuale».
I suoi progetti per Milano?
«A Milano lui è stato l’architettura per tanti anni. Nel bene e nel male. Dopo Aldo Rossi
non aveva alter ego o rivali, ma divenne quasi un allievo di Rossi».
Lo si collocava in quell’alta borghesia di sinistra milanese: che eredità lascia?
«La stagione dei Feltrinelli,
Maldonado, Eco è stata importantissima. Da lì siamo venuti fuori anche noi, Boeri, Zucchi ed io. Da lì è nata l’idea di scavare, insegnare, scrivere. Lui ha insistito sull’architettura che scava nell’architettura».
Quel dibattito è morto a Milano?
«Non è un problema milanese, ma planetario, il mondo è cambiato. Noi lo abbiamo vissuto, ormai lo ricordiamo».
Il progetto più riuscito? «Il progetto intellettuale. La sua Biennale di Architettura è stata la più interessante fino ad oggi. Ha portato le persone che hanno creato gli anni 80 e 90. Mi piace il suo periodo novarese di grande eleganza. È stato un gestore di intelligenze. Sapeva tirare fuori il meglio dai giovani».