Corriere della Sera (Milano)

«Io, volontaria in missione a Lodi Vorrei piangere e dico ai pazienti: non siete soli»

Chiara, 43 anni, è partita dieci giorni fa dal Besta «Ho trovato tante colleghe lontane dalle loro famiglie Lottano con la stanchezza. Una forza commovente»

- di Giangiacom­o Schiavi gschiavi@rcs.it

«Ho detto: vado, mi offro come volontaria, a Lodi hanno bisogno di rianimator­i, posso essere utile anch’io». La dottoressa Chiara è appena uscita da una trincea. «È stata una scelta istintiva per aiutare chi ha bisogno: siamo medici proprio per questo».

La sua storia riassume quella di altri colleghi che da giorni vivono in ospedale tra i malati in attesa al Pronto soccorso e quelli da ventilare o intubare in Terapia intensiva: vanno incontro a un pericolo senza vederlo, sanno che quel che fanno per proteggers­i potrebbe non bastare, non si vedono in tv ma ci sono, ci si può contare, sono stravolti dalla fatica ma non si arrendono.

Chiara ha 43 anni, lavora all’istituto Besta, è partita dieci giorni fa per l’ospedale di Lodi con la collega Beatrice e oggi si porta addosso la grande umanità che ha trovato in corsia. «Notte e giorno operativi al cento per cento, cancellati i reparti per far posto ai malati Covid, decisioni pratiche da prendere in base alla gravità, la paura di essere contagiati e la difficoltà a gestire il lavoro e le emozioni. Dietro tanti sguardi che straziavan­o il cuore c’era sempre qualcuno in grado di infondere coraggio e speranza».

È partita da Milano dieci giorni fa, dopo una notte insonne e un tardivo ripensamen­to. «Ho lasciato mio figlio piangendo e il mio compagno preoccupat­o. Ma a Lodi tutti i dubbi sono spariti. In quella bolgia ho visto una quiete che mi ha indirizzat­o: tante colleghe, tante donne come me, tutte che avevano lasciato casa e famiglia e nessuna che dicesse “sono stanca”. La loro forza mi ha commosso».

Medici eroi, abbiamo scritto in questi giorni. Non è esagerato. Negli ospedali della Lombardia si stanno schiantand­o da settimane, fanno di tutto per salvare le vite degli altri: danno un grande esempio, una lezione di umanità e profession­alità. I malati Covid sono in altalena continua, attraversa­no un campo minato: sembrano migliorare, poi improvvisa­mente peggiorano. «Quando ti avvicini a uno di loro e gli prendi la mano, ti viene da piangere. Ma non puoi farlo, gli fai capire che non è solo, che presto magari si passerà all’ossigenote­rapia, e che forse questo passaggio avrà successo…». E se non fosse così? «Dovremo addormenta­rlo e passare alla terapia intensiva. Un paziente mi ha guardato negli occhi e mi detto: “A casa qualcuno mi aspetta, chi avverte?”. Gli ho risposto: “Noi siamo qui, ci rivedremo fra una settimana. Voglio che si svegli bene”». È una lotta, spiega Chiara, «il virus è come una piovra che si impossessa di te, ed è la polmonite che decide se fra una, due, tre settimane sarai guarito oppure no». I medici sono pochi, racconta Chiara, e sono poche le terapie intensive. Questa è la rabbia di tanti rianimator­i. Molti dei malati che arrivavano al Pronto soccorso sono gravati da altre patologie, e questo complica maledettam­ente il recupero. «Ma saremmo in grado di salvare più persone con più posti e con più medici, con la ventilazio­ne precoce spesso se ne esce, i malati spesso ce la fanno. Io non mi arrendo, come i colleghi di Lodi. Ripeto a tutti: dobbiamo farcela».

Da questo viaggio tra dolore e speranza, adesso che è stata richiamata nel suo ospedale a Milano, Chiara si porta dentro anche il senso di una squadra unita, compatta, formata da medici e infermieri: «Tutti impegnati a dare il loro meglio. Sono arrivati anche i colleghi del San Raffaele, con le loro competenze. Ha funzionato il collegamen­to con la cabina di regia della Regione. In un momento così difficile questa unità è qualcosa che ci rafforza, in un dramma immenso ci fa sentire una grande solidariet­à. È come se parlassimo tutti la stessa lingua, pubblico e privato, medici e infermieri. Tra persone che non si conoscevan­o è nata spontaneam­ente una comunità di cura». Niente per me sarà più come prima, dice Chiara. «Dopo esperienze di questo tipo non si può più essere normali». Prima dei diritti e dei doveri, lei e altri medici hanno messo il bisogno, il bisogno di aiuto contro un’ingiustizi­a. Oggi si chiama Coronaviru­s.

Il monitoragg­io

I malati sono in altalena continua: sembrano migliorare, poi a un tratto peggiorano

 Squadra È come se parlassimo tutti la stessa lingua, pubblico e privato, medici e infermieri È comunità

Il futuro Dopo esperienze di questo tipo non si può più tornare a essere normali, cambia tutto

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IL COLLOQUIO LA RIANIMATRI­CE

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