«Io, volontaria in missione a Lodi Vorrei piangere e dico ai pazienti: non siete soli»
Chiara, 43 anni, è partita dieci giorni fa dal Besta «Ho trovato tante colleghe lontane dalle loro famiglie Lottano con la stanchezza. Una forza commovente»
«Ho detto: vado, mi offro come volontaria, a Lodi hanno bisogno di rianimatori, posso essere utile anch’io». La dottoressa Chiara è appena uscita da una trincea. «È stata una scelta istintiva per aiutare chi ha bisogno: siamo medici proprio per questo».
La sua storia riassume quella di altri colleghi che da giorni vivono in ospedale tra i malati in attesa al Pronto soccorso e quelli da ventilare o intubare in Terapia intensiva: vanno incontro a un pericolo senza vederlo, sanno che quel che fanno per proteggersi potrebbe non bastare, non si vedono in tv ma ci sono, ci si può contare, sono stravolti dalla fatica ma non si arrendono.
Chiara ha 43 anni, lavora all’istituto Besta, è partita dieci giorni fa per l’ospedale di Lodi con la collega Beatrice e oggi si porta addosso la grande umanità che ha trovato in corsia. «Notte e giorno operativi al cento per cento, cancellati i reparti per far posto ai malati Covid, decisioni pratiche da prendere in base alla gravità, la paura di essere contagiati e la difficoltà a gestire il lavoro e le emozioni. Dietro tanti sguardi che straziavano il cuore c’era sempre qualcuno in grado di infondere coraggio e speranza».
È partita da Milano dieci giorni fa, dopo una notte insonne e un tardivo ripensamento. «Ho lasciato mio figlio piangendo e il mio compagno preoccupato. Ma a Lodi tutti i dubbi sono spariti. In quella bolgia ho visto una quiete che mi ha indirizzato: tante colleghe, tante donne come me, tutte che avevano lasciato casa e famiglia e nessuna che dicesse “sono stanca”. La loro forza mi ha commosso».
Medici eroi, abbiamo scritto in questi giorni. Non è esagerato. Negli ospedali della Lombardia si stanno schiantando da settimane, fanno di tutto per salvare le vite degli altri: danno un grande esempio, una lezione di umanità e professionalità. I malati Covid sono in altalena continua, attraversano un campo minato: sembrano migliorare, poi improvvisamente peggiorano. «Quando ti avvicini a uno di loro e gli prendi la mano, ti viene da piangere. Ma non puoi farlo, gli fai capire che non è solo, che presto magari si passerà all’ossigenoterapia, e che forse questo passaggio avrà successo…». E se non fosse così? «Dovremo addormentarlo e passare alla terapia intensiva. Un paziente mi ha guardato negli occhi e mi detto: “A casa qualcuno mi aspetta, chi avverte?”. Gli ho risposto: “Noi siamo qui, ci rivedremo fra una settimana. Voglio che si svegli bene”». È una lotta, spiega Chiara, «il virus è come una piovra che si impossessa di te, ed è la polmonite che decide se fra una, due, tre settimane sarai guarito oppure no». I medici sono pochi, racconta Chiara, e sono poche le terapie intensive. Questa è la rabbia di tanti rianimatori. Molti dei malati che arrivavano al Pronto soccorso sono gravati da altre patologie, e questo complica maledettamente il recupero. «Ma saremmo in grado di salvare più persone con più posti e con più medici, con la ventilazione precoce spesso se ne esce, i malati spesso ce la fanno. Io non mi arrendo, come i colleghi di Lodi. Ripeto a tutti: dobbiamo farcela».
Da questo viaggio tra dolore e speranza, adesso che è stata richiamata nel suo ospedale a Milano, Chiara si porta dentro anche il senso di una squadra unita, compatta, formata da medici e infermieri: «Tutti impegnati a dare il loro meglio. Sono arrivati anche i colleghi del San Raffaele, con le loro competenze. Ha funzionato il collegamento con la cabina di regia della Regione. In un momento così difficile questa unità è qualcosa che ci rafforza, in un dramma immenso ci fa sentire una grande solidarietà. È come se parlassimo tutti la stessa lingua, pubblico e privato, medici e infermieri. Tra persone che non si conoscevano è nata spontaneamente una comunità di cura». Niente per me sarà più come prima, dice Chiara. «Dopo esperienze di questo tipo non si può più essere normali». Prima dei diritti e dei doveri, lei e altri medici hanno messo il bisogno, il bisogno di aiuto contro un’ingiustizia. Oggi si chiama Coronavirus.
Il monitoraggio
I malati sono in altalena continua: sembrano migliorare, poi a un tratto peggiorano
Squadra È come se parlassimo tutti la stessa lingua, pubblico e privato, medici e infermieri È comunità
Il futuro Dopo esperienze di questo tipo non si può più tornare a essere normali, cambia tutto