Il quartiere unito dal canto di Syria
La musicista raduna (a distanza) l’isolato
Cecilia Cipressi, in arte Syria, canta dal balcone ogni giorno per chiedere di non uscire di casa.
«Ci sono molte cose che si possono fare per ringraziare chi lavora ininterrottamente e a proprio rischio per arginare questo contagio. La prima è stare a casa. La seconda è invitare anche gli altri a rimanerci. Io ci provo con quello che mi viene bene: canto e trascino la gente sui balconi …».
Cecilia Cipressi, in arte Syria, abita al primo piano di una casetta in zona piazza Piemonte che è circondata da caseggiati molto alti, quasi grattacieli. Un centinaio di famiglie almeno, forse di più. «Vivo qui da vent’anni e non conoscevo nessuno. La prima volta mi sono timidamente affacciata cantando l’Inno d’Italia, in punta di piedi. Man mano è diventato un appuntamento quotidiano, ogni giorno alle 18 e adesso anche alle 21 — racconta —. Intono canzoni che secondo me hanno un valore civico e danno forza, Lucio Dalla, Vasco Rossi, Gabriella Ferri. Con la musica chiedo alle persone a non uscire».
Syria Aveva esordito a San Remo ventenne, nel 1996, con il brano «Non ci sto», e fece subito furore. Ora la sua strepitosa voce che coinvolge e travolge si leva tra i palazzoni e «stacca» tutte le altre. La gente prova ad inseguire i suoi bassi e acuti pazzeschi in una sorta di lezione di canto improvvisata («e non voluta, ci manca che io faccia la maestrina con la penna rossa!»). Sul balcone ci sono anche il marito Pier Paolo e i figli Alice e Romeo, 18 anni e 7 anni: «La gente ha bisogno di guardare avanti, di alleggerirsi. Si è creata una solidarietà di vicinato, siamo accomunati da un senso di impotenza, ci diamo vicendevolmente coraggio».
Quel sabato sera, quando il governo ha emesso l’ordinanza, pochi avevano una chiara percezione del pericolo. Adesso è diverso: «La paura spesso ci fa cambiare le abitudini consolidate — riflette Syria —. Da quel giorno stiamo confinati nelle mura domestiche. Ci mancano tantissimo le serate, i concerti, le corse al parco, ma non c’è voglia che tenga. È un necessario esercizio di pazienza». La sua impressione è che i milanesi nei primi giorni fossero più rigorosi nel seguire le regole date e che adesso invece, paradossalmente e proprio nella fase più critica, inizino ad allargare le maglie, a concedersi auto-deroghe e qualche volta ad uscire. Sprona a non farlo: «Serve disciplina collettiva. Se ci sembra di aver raggiunto il limite di sopportazione, ebbene superiamo quel limite. Stiamo in casa lo stesso». Bisogna essere più empatici che mai, conclude Syria: «Se vediamo i camion dell’esercito che a Bergamo portano via le bare perché sono troppe e non ci stanno più, il mio pensiero è che la morte degli altri riguarda anche noi — dice —. Partiamo da lì per crearci valvole di sfogo e di vita che siano compatibili con la salute degli altri». Lei spalanca le finestre, va sul balcone, e canta.