Così un mese fa si è scatenato lo tsunami che ci ha investiti
Dal primo tampone positivo al martirio di Bergamo tra paure, provvedimenti e polemiche Le visioni indelebili dei paesi vuoti e degli ospedali
Tutto è iniziato in una giornata di sole. Giovedì 20 febbraio, ore 16: Mattia M., 38 anni, manager e podista, viene sottoposto a test per il Covid-19. L’esito arriva in serata. Da qui parte lo tsunami che in trenta giorni ha travolto la Lombardia e l’Italia. Un periodo che non ha precedenti nella storia. Uno scenario da guerra, con scuole, bar e uffici chiusi. Scattano i divieti. Ma non bastano. E in Lombardia si muore ancora.
Sono trenta giorni che resteranno per sempre impressi nella memoria. E già diventati un pezzo della storia d’Italia. Di un Paese che s’è svegliato più fragile e in preda a un’emergenza mai affrontata dal Dopoguerra. I trenta giorni che hanno cambiato forse per sempre le nostre vite.
20 febbraio - L’inizio
A Milano c’è il sole. L’aria però è fredda. È il giorno della strage ad Hanau in Germania: 11 morti. Nei bar si parla di Ludogorets-Inter e dei vertici di Rfi indagati per il deragliamento del Frecciarossa a Lodi. La storia però, come spesso succede, si fa altrove. Siamo in un ospedale di provincia, a Codogno, 15 mila abitanti nel Basso Lodigiano. Mattia M. 38 anni, manager e sportivo, è ricoverato con una brutta polmonite. Aveva già fatto un passaggio nei giorni scorsi al pronto soccorso ma la febbre non era andata via.
Una dottoressa dell’équipe medica alle 16 di giovedì lo sottopone a tampone per il Covid-19. Il coronavirus, l’epidemia che ha flagellato Wuhan ma che ancora in Italia — tolti i due cinesi ricoverati a Roma — non è arrivata. L’esito del test viene comunicato all’ospedale di Codogno alle 21. E sorprende tutti. Perché Mattia non è mai stato in Cina, anche se è stato a cena con un amico che è appena rientrato dall’Asia.
Lo racconta la moglie, che si scoprirà anche lei positiva, perché Mattia non può parlare: è intubato e ricoverato in terapia intensiva. A mezzanotte l’allarme arriva in tutto l’ospedale. Si scopre che anche i medici che lo hanno curato sono positivi. La mattina dopo la struttura e il pronto soccorso sono isolati.
L’area blindata
Il «paziente uno» è il primo sasso che fa partire la valanga che travolge dieci paesi del Lodigiano. Da Codogno si scoprono altri casi a Castiglione d’Adda, Casalpusterlengo, Maleo. L’amico di Mattia, che era stato individuato come il «paziente zero» del contagio, però risulta negativo. Dai medici emerge che ci sono già stati morti per polmonite nelle nel Lodigiano. Il sospetto è che tutto sia partito molto prima del 20 febbraio. A Vo’ Euganeo in provincia di Padova si scopre un altro focolaio. E dal Veneto arriva la prima vittima italiana.
Sabato scattano le zone rosse: una a Vo’, l’altra nei dieci comuni del Basso Lodigiano. Negozi chiusi, scuole e fabbriche ferme: nessuno entra e
nessuno esce.
Stop a scuole e musei
L’epidemia travolge le regioni del Nord. Il Governo decide la serrata: scuole e musei chiusi, bar e ristoranti aperti ma con forti limitazioni. Le indiscrezioni fanno partire l’assalto ai supermercati. A una settimana dal primo caso di Codogno, giovedì 27 febbraio, il virus arriva in Regione. Una segretaria del governatore Attilio Fontana è positiva al Covid-19: il presidente va in isolamento. Il suo video, mentre indossa la mascherina, fa il giro del mondo. Si scatenano le polemiche.
Ma c’è un’altra polemica che tiene banco. Ed è la spinta, partita dal sindaco di Milano Beppe Sala, a rivedere divieti e restrizioni. Sui social
nasce l’hashtag «milanoriparte». A Codogno, arriva l’Esercito, si muore al ritmo di due, tre vittime al giorno, ma quel che accade a 40 chilometri da Milano è percepito come lontano. E incredibilmente sottovalutato. Nel weekend ci sono migliaia di persone in strada, nei parchi, nei locali (nel frattempo riaperti anche la sera). Anche il leader del Pd Nicola Zingaretti si fa fotografare mentre brinda a Milano. Per molti il coronavirus è «un’influenza», solo un po’ più aggressiva. Ma poche ore dopo anche Zingaretti è positivo.
Lombardia chiusa
I contagi non si fermano. Si muore a Lodi, ma si inizia a morire nella Bergamasca e il virus si espande nel Bresciano. In queste due province l’epidemia esplode in pochi giorni. La sanità lombarda, eccellenza del Paese, va in crisi. I letti di terapia intensiva non bastano più. Gli sforzi della Regione fanno recuperare postazioni di rianimazione anche nei corridoi. L’epidemia arriva nelle altre regioni. È emergenza nazionale.
Per questo il Governo, su pressione della Regione, decide di chiudere il Nord: stop totale a bar e ristoranti, negozi chiusi, aperti solo gli alimentari. Molte aziende restano chiuse, si lavora in smart work, ma servono giustificati motivi anche solo per uscire di casa. Si muore a ritmo sempre più alto: 2.168 vittime. Intanto Mattia è fuori pericolo. Ma a Bergamo servono i soldati per portare via le bare. C’è sempre più paura. I contagi salgono. E adesso anche a Milano: 3.278.