L’ora di allearsi tra generazioni
Giovani che escono incuranti della salute dei nonni? I lettori dicono che non è così. E, anzi, è tempo di un patto generazionale.
Non uscire. Restare in casa. Limitare i contatti. Le parole d’ordine per noi cittadini sono quelle del coprifuoco, come in guerra. Se ne esce restando uniti (oggi lo siamo virtualmente). E rispettando le regole. Giovani e vecchi. Siamo tutti chiamati allo stesso senso di responsabilità.
Giovani e anziani
Tempo di alleanze
Caro Schiavi, in questi ultimi giorni mi sembra che alcuni interventi rischino di alimentare anche il conflitto generazionale. Non metto in dubbio che qualche assembramento di giovani in orario pomeridiano sia ancora visibile, ma così come le mattinate vedono le vie milanesi frequentate da diversi adulti e anche anziani. Fondamentali gli appelli alla responsabilità, meno giustificati gli strilloni su adolescenti incuranti delle sorti dei propri nonni.
Troppi parlano dei giovani sulla base della propria esperienza individuale, ma chi li incontra quotidianamente sa bene quanto le ultime generazioni siano profondamente legate ai nonni. Negli ultimi anni molti adolescenti hanno deciso di tatuarsi sul corpo, sotto pelle, la data di nascita o della morte di chi li ha cresciuti e accompagnati in molte esperienze, mentre madri e padri lavoravano. La morte del nonno o della nonna è per molti ragazzi un dolore che cambia la vita, scelgono di parlarne nei colloqui con gli psicoterapeuti. Rischiamo irresponsabilmente di amplificare lo scontro generazionale, invece di appianarlo, peraltro non riconoscendo che se mai esistesse qualche fascia della popolazione che in questo momento storico avrebbe diritto di parola per lamentarsi di ciò che sta accadendo al pianeta e all’umanità, si tratterebbe proprio della fascia giovanile. O anche l’inquinamento, il disboscamento, l’assenza di certezze lavorative dipendono dall’irresponsabilità degli adolescenti?
Credo che molti giovani siano interessati a capire dai nonni il significato della parola «ricostruzione»: questo non è il mondo che avevano sognato con la fine della guerra. Lei vede da psicologo e psicoterapeuta il rischio di scontri generazionali, io spero nell’inizio di un’alleanza. E ripeto l’invito: state a casa.
Infinita. Io capisco l’enorme e coraggioso impegno del personale sanitario, con le strutture ormai vicine al collasso. E anche quello delle Istituzioni. Ma non sono riuscito a ricacciare in gola una domanda che riguarda la mancata effettuazione, almeno, della prova del tampone: perché al signor Zingaretti sì (e con lui vip vari) e al signor F. no?
La questione vera non è il tampone, ma il fatto che il signor F solo tre mesi fa sarebbe stato ricoverato. E probabilmente salvato. Oggi entrare in ospedale è un privilegio, ma non di casta, di ruolo o di censo: il sistema è saltato, siamo alla medicina delle catastrofi.
I dottori di famiglia
Sono stati lasciati soli
Sono la compagna di un medico che opera nel territorio del Municipio 6. Abbiamo una bimba di quattro mesi e mezzo, che lui non vede da ormai tre settimane e sicuramente non vedrà per altrettanto tempo ancora. Volevamo festeggiare con lui la sua prima festa del papà, ma purtroppo non è stato possibile.
In generale i medici di medicina generale ricevono un apprezzamento molto marginale in questo periodo difficile. Io vorrei ringraziare tutti quelli che, come lui, stanno svolgendo con dedizione ed impegno il loro lavoro; tutti quelli che sono padri e madri e per salvaguardare la propria famiglia se ne stanno privando. Purtroppo i medici di famiglia sono stati abbandonati, a Milano l’Ats ha fornito una quantità inutile di mascherine (10) e camici (1)… ma loro continuano ad esserci… cercando di limitare il più possibile l’accesso al Pronto Soccorso.
I medici di famiglia sono stati lasciati soli, senza protezione e precauzioni, come soldati mandati allo sbaraglio. Il suo grazie è anche il nostro.
Podista sulla Martesana
Ma tu a cosa pensi?
Cara podista con la tutina che fai stretching sulla Martesana come se fosse una qualunque domenica di maggio, è da ieri che non riesco a togliermi dalla testa la tua foto e mi rendo conto che davvero non ti capisco. Io sono chiusa in casa dal dieci marzo.
Nella vita faccio la libraia. Il 12 marzo la libreria per cui lavoro ha chiuso i battenti fino a data da destinarsi, io e i miei colleghi siamo in cassa integrazione. Non andare a lavorare per me è brutto. Primo, perché ritengo che un libro possa essere un bene di prima necessità, al pari delle sigarette o del deodorante. Secondo, perché da questa chiusura forzata la mia libreria, indipendente, uscirà in ginocchio. E tu vai a correre. Quando ti viene detto ripetutamente che devi startene a casa. Perché altrimenti l’epidemia non si ferma. E allora io mi chiedo: ma mentre corri a cosa pensi?
Probabilmente pensa che correre da soli non crei problemi. Ma se lo pensano tutti, siamo alla Stramilano. State a casa, ragazzi: briscola e settimana enigmistica…